La sera avvolgeva Brooklyn in un manto di luci tremolanti e ombre danzanti. Accanto a me, zio Gennarino, con lo sguardo perso nel passato, rievocava il lontano giorno del 1913 in cui lasciò Procida. “Ricordo ancora il giorno in cui partii,” disse, gli occhi lucidi. “Lasciai Procida con una valigia di cartone e tanta speranza nel cuore. Il profumo del mare mentre la nave si allontanava dal porto di Napoli e il sapore salato delle lacrime sul mio volto sono impressi nella mia memoria.” Ascoltavo in silenzio, spesso commosso, consapevole che quel primo incontro sarebbe stato solo l’inizio di una serie di racconti. La nave su cui dovevo imbarcarmi faceva scalo settimanale a New York, offrendo ulteriori occasioni per approfondire quelle storie.
“All’inizio, come riuscivi a sostenere la famiglia da così lontano?” chiesi, incuriosito. “Appena arrivato, trovai una comunità di paesani che mi procurò una sistemazione provvisoria a Brooklyn e un lavoro come scaricatore al porto di New York, dove lavorano ancora tanti compaesani. Appena possibile iniziai a mandare piccole somme come rimesse e ,successivamente, quei famosi pacchi che per anni hanno fatto comodo alla famiglia.” “Ricordo bene la festa che facevamo all’arrivo del pacco dall’America, coinvolgeva tutto il vicinato e mi procurò il mio primo paio di pantaloni lunghi, adattati da mia madre,” aggiunsi.
Poco dopo fummo interrotti da mia cugina che annunciò la cena, informandomi che la camera degli ospiti era pronta e che sabato mattina mi avrebbero accompagnato a New York per l’imbarco sulla M/N Italia della Home Lines. Venerdì 11 aprile 1963 lo dedicammo a visitare i parenti più prossimi, alcuni dei quali erano giunti da Procida e da Monte di Procida, portando con sé nomi noti e storie di sacrificio. Nonostante le difficoltà iniziali, la comunità procidana, con i primi arrivi già dal 1890, aveva prosperato, mantenendo vive le tradizioni e i legami con la terra d’origine. Queste storie erano testimonianze vivide di resilienza e determinazione, e ascoltandole, mi facevano sentire parte di una storia più grande ,un filo che collegava le generazioni attraverso l’oceano.
Molti di loro non parlavano più l’italiano, ma uno slang americanizzato tipico di Brooklyn, una lingua creata dagli immigrati italiani in America che permetteva loro di comunicare nella nuova comunità. Solo mio cugino parlava bene l’inglese perché il padre aveva fortemente voluto che studiasse per un futuro diverso e non da scaricatore al porto. Vincenzo, questo il suo nome, in un secondo momento aveva abbandonato la comunità procidana e si era trasferito a Stamford, nel Connecticut, dove aveva aperto una gioielleria. Ognuno aveva la propria storia da raccontare, intercalata da termini per me strani come “giobba” da “job” (lavoro), “grosseria” da “grocery” (generi alimentari), “bisinisse” da “business” (affari) e tante altre espressioni nate dall’incontro tra le due culture.
Tutti ci tennero a precisare che il loro incubo era Ellis Island, per molti chiamata l’isola delle lacrime. Su quell’isola venivano registrati tutti gli emigranti prima dell’approdo vero e proprio. Bisognava superare controlli, anche sanitari, estremamente meticolosi, e non era mai una cosa facile. Per aggirare questi ostacoli, coloro che erano già sbarcati in America spesso ritardavano l’arrivo dei parenti per avere il tempo di racimolare la cifra necessaria per l’acquisto di un biglietto di seconda classe. “Una cosa mica da poco questa,” mi dicevano, perché era l’unico modo per ottenere il permesso di scendere a terra senza passare da Ellis Island.
La sera, i miei cugini mi portarono a cena in un noto ristorante italiano, “Angelo’s”, attivo a Little Italy già da molti anni. Il locale aveva importato i sapori della cucina napoletana ed era frequentato da numerosi italo-americani, molti dei quali si unirono a noi per conoscere questo nuovo italiano che arrivava a New York non come emigrante, ma come Ufficiale di coperta con un ruolo di prestigio sulle navi da passeggeri che partivano da New York per le crociere nei Caraibi. Non mancava il solito cantante italo-americano che deliziava le serate dei clienti con vecchie canzoni della tradizione partenopea, tra le quali non poteva mancare “Santa Lucia luntana”, ispirata proprio ai sentimenti che provavano gli emigranti quando si allontanavano dalla terraferma.
Nel corso della discussione, scoprii che nel 1910, dopo Napoli, Roma e Milano, la città con il maggior numero di italiani era New York. Alcuni dei presenti ci tenevano a condividere il significativo contributo che i lavoratori italiani avevano apportato allo sviluppo degli Stati Uniti, lavorando in vari settori, dall’edilizia all’industria manifatturiera, lasciando quindi un’impronta indelebile nella crescita economica del paese. Mi parlarono anche di vari artisti italo-americani come Dean Martin e Perry Como, che avevano portato al successo oltreoceano tante canzoni italiane. La conversazione, nella gradevole atmosfera del locale, proseguì arricchita da altri racconti e aneddoti, mentre la musica continuava a tessere un filo invisibile tra passato e presente, tra l’Italia e l’America.
L’indomani, sabato 12 aprile, mio cugino, come promesso, mi accompagnò in auto a New York, dove la M/N Italia era già ormeggiata al Pier 94 del Manhattan Cruise Terminal fin dalle 8:00. Il molo era brulicante di passeggeri che sbarcavano, il ritiro dei bagagli, il personale che ne approfittava per andare a terra per varie incombenze; tutto molto diverso dagli arrivi delle navi su cui in precedenza ero imbarcato. Salutati i parenti, salii a bordo per le formalità di imbarco e fui accompagnato nella mia cabina per cambiarmi e presentarmi al Comandante in Seconda, il quale, oltre alle raccomandazioni di rito aggiunse che il mio turno di guardia sarebbe stato dalle 12.00 alle 16.00 e da mezzanotte alle 04.00 del mattino.
Terminate le operazioni di sbarco, alle 12:00 iniziarono quelle di imbarco per i nuovi passeggeri, molti dei quali accompagnati da amici e familiari. L’atmosfera era festosa: nelle cabine si brindava e si scambiavano saluti affettuosi. Alle 15:00, un annuncio invitò i visitatori a lasciare la nave. I passeggeri, affacciati ai parapetti dei ponti superiori, salutavano coloro che erano rimasti a terra, lanciando festosi coriandoli colorati che creavano una pioggia scintillante, simbolo di buon auspicio per l’imminente viaggio. Questa tradizione aggiungeva un tocco di magia al momento della partenza, rendendo l’inizio della traversata un ricordo indelebile per tutti i presenti, compreso il sottoscritto, abituato alle più sobrie partenze delle navi petroliere da cui provenivo.
Alle 16:00, con un sussulto quasi impercettibile, la M/N Italia si staccò dall’ormeggio al Pier 94 del Manhattan Cruise Terminal. I cavi d’ormeggio furono recuperati con precisione, e mentre le potenti eliche iniziavano a spingere la nave lungo il fiume Hudson, la sagoma imponente di Manhattan si stagliava contro il cielo. I grattacieli, illuminati dalla luce del pomeriggio, sembravano un mosaico scintillante, mentre il brusio della città si affievoliva, sovrastato dal suono profondo dei motori e dal richiamo dei gabbiani.
Mentre la nave navigava lungo il fiume, si poteva scorgere, la storica Ellis Island, silenziosa testimone di milioni di sogni e speranze, chiusa ormai dal 1954 ma ancora carica di memorie e ,poco dopo, la sagoma inconfondibile della Statua della Libertà, simbolo iconico di New York e degli Stati Uniti, si rivelava fiera e solenne nella baia mentre si avvicinava, quasi come un rito, il passaggio sotto l’arcata del Ponte di Verrazzano. Dietro di noi, le luci di New York iniziavano a tremolare nella foschia del crepuscolo, mentre lungo le coste di Brooklyn e Staten Island si scorgevano le prime ombre della sera e l’Atlantico si spalancava in tutta la sua immensità.
Era l’inizio di un viaggio che non sarebbe stato solo una traversata, ma una vera avventura, destinata a segnare la mia vita nei dieci anni a venire.