L’Italia è una penisola. Una definizione geografica che è anche una verità storica, culturale, antropologica. Circondata dal mare per oltre ottomila chilometri di coste, la nostra nazione avrebbe avuto tutte le carte in regola per diventare una grande potenza marittima. Eppure, qualcosa si è spezzato lungo il cammino, una frattura profonda che ha condotto l’Italia a perdere progressivamente memoria e consapevolezza della propria vocazione marinara.
Lo dimostrano la disattenzione cronica verso le infrastrutture portuali, la marginalità delle politiche marittime, l’abbandono della flotta mercantile e militare, e, soprattutto, la scomparsa del mare dalla coscienza collettiva nazionale. Il mare – elemento fondativo della nostra identità – è stato ridotto a cornice turistica, a cartolina estiva, a sfondo per i selfie delle vacanze.
Eppure, prima che l’Italia fosse una nazione, era un arcipelago di civiltà marinare. Genova, Venezia, Amalfi, Pisa: nomi che risuonano nella storia d’Europa. E con loro i porti di Napoli, Palermo, Trieste, Livorno, Ancona, Cagliari. Ogni città costiera era un mondo a sé, un punto di snodo commerciale, militare, culturale e la marina mercantile e quella militare rappresentavano il cuore pulsante delle economie e delle ambizioni politiche.
Dopo l’Unità d’Italia, il nuovo Regno adottò una politica di centralizzazione e uniformazione, spesso più attenta all’ordine burocratico che alla valorizzazione delle specificità locali. Nel settore marittimo, questo significò da un lato l’avvio di una serie di riforme per regolamentare porti, dall’altro una perdita di attenzione verso le autonomie e le tradizioni marinare dei singoli territori.
La riforma dell’ordinamento giudiziario del 1888 segnò la fine dei Tribunali di Commercio che, con tutte le loro lacune, rappresentavano comunque un presidio di competenza nelle controversie marittime. Con il tempo, la giurisdizione marittima venne diluita in quella civile ordinaria, facendo perdere alla giustizia un patrimonio tecnico-giuridico legato al mare.
Nel frattempo, in tutta Italia, si avviavano o proseguivano i lavori nei porti, spesso su iniziativa di consorzi locali o comuni costieri, più attenti alla vocazione territoriale che non la lontana amministrazione centrale.
Ma il cuore della crisi italiana nei confronti del mare non è solo amministrativo. È culturale. È, per riprendere le parole di un libro di Marco Valle, la storia di una “rimozione collettiva” durata oltre un secolo.
Nel panorama editoriale degli ultimi anni, pochi libri hanno saputo cogliere con lucidità e rigore la frattura profonda che separa l’Italia dalla sua storica vocazione marittima. Con la penna dello storico e lo sguardo del navigante, Valle ricostruisce secoli di grandezza marittima — spesso dimenticati o rimossi — e ne denuncia l’oblio nelle politiche pubbliche, nella cultura nazionale e nella scuola.
Nel suo libro ”Patria senza mare. Perchè il mare nostrum non è più nostro. Una storia dell’Italia marittima” Valle ripercorre con lucidità la parabola di un Paese che, pur essendo naturalmente proteso verso il mare, ha preferito rifugiarsi nella dimensione terragna, agricola, burocratica. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, complice anche la sconfitta e la dissoluzione della marina imperiale, l’Italia ha progressivamente smantellato la sua flotta, perso posizioni nei commerci globali, rinunciato a qualsiasi ambizione strategica nel Mediterraneo.
Il boom economico ha trasformato il litorale in una striscia di cemento e stabilimenti balneari, ma non ha generato un rinascimento marittimo. I porti sono stati abbandonati o trasformati in terminal passeggeri stagionali. La pesca è stata lasciata agonizzare tra normative europee e concorrenza estera. Le scuole nautiche sono state ridotte, depotenziate, e il reclutamento nelle flotte mercantili è calato in modo allarmante.Eppure, paradossalmente, proprio mentre l’Italia perdeva il controllo del proprio mare, cresceva la sua dipendenza strategica da esso: basti pensare all’importazione energetica, ai traffici commerciali, alla posizione geopolitica nel Mediterraneo allargato.
Il mare non è solo una componente paesaggistica o romantica. È una risorsa economica, geopolitica, ambientale. È, per l’Italia, un destino. Riscoprire la vocazione marinara della nostra nazione significa restituire centralità a una cultura, a una memoria, a una funzione che può e deve essere attualizzata. Significa rimettere mano alle politiche portuali, sostenere la formazione professionale marittima, investire nella cantieristica, nella logistica, nella ricerca oceanografica. Ma prima ancora significa tornare a raccontare il mare.
Proprio per questo, libri come “Patria senza mare” rappresentano molto più che saggi di denuncia: sono atti di amore e consapevolezza. Sono un invito a rileggere la nostra storia con uno sguardo marittimo, a riscoprire gli eroi della navigazione, le battaglie navali, le rotte commerciali che hanno fatto grande l’Italia. Sono una bussola culturale, indispensabile per ogni progetto di rinascita nazionale.La rilettura del libro nasce proprio dalla esigenza di riportare al centro del dibattito pubblico il ruolo dimenticato del mare nella storia e nell’identità dell’Italia,un tema che ho recentemente approfondito in un convegno organizzato presso una associazione locale,richiamando l’importanza di promuovere questi libri nelle scuole, nelle accademie, nelle istituzioni marittime. È da lì che deve partire il cambiamento, dalle nuove generazioni che potranno vedere nel mare non solo una linea blu all’orizzonte, ma un’opportunità, una sfida, un’identità.
La politica, la cultura, l’impresa, la scuola: tutti i gangli vitali della nazione devono tornare a guardare al mare come risorsa e come destino. Non ci sarà rinascita italiana senza una piena rinascita marittima. È tempo che l’Italia, finalmente, smetta di avere le spalle voltate al mare.
Chi trae vantaggio da un’Italia cieca verso i suoi porti, disinteressata alla formazione di nuovi ufficiali, disinnescata della sua flotta mercantile, costretta ad affidare la propria logistica marittima a gruppi stranieri? A chi fa comodo che la nostra tradizione navale sia dimenticata o che le nuove generazioni ignorino persino cosa siano stati l’Amerigo Vespucci o la “Regia Marina”?
Forse a chi vuole un’Italia servile, marginale, compressa tra dogmi continentali e tecnocrazie asettiche. Un’Italia ridotta a dependance turistica, a piattaforma passiva tra Nord Europa e Africa, incapace di dire la sua sulle grandi sfide del Mediterraneo: l’energia, la sicurezza, l’immigrazione, il commercio, la proiezione geopolitica.
Il mare è potere. E l’Italia,per tornare sovrana deve tornare padrona del suo mare. Nei pochi convegni dedicati alle materie marittime, si nota più passerella che sostanza. Al di là delle dichiarazioni di rito e delle buone intenzioni, spesso si assiste a un rituale autoreferenziale, dove prevalgono le formalità protocollari, le strette di mano, le foto ricordo. I relatori si alternano sul palco con discorsi vaghi, talvolta ripetitivi, che raramente approdano a proposte concrete o a impegni operativi.
Manca, insomma, una visione strategica che dia continuità agli incontri, trasformandoli in tavoli di lavoro permanenti capaci di coinvolgere istituzioni, operatori del settore, mondo accademico e associazioni professionali. Non si tratta solo di organizzare meglio gli eventi, ma di invertire una tendenza: restituire al mare e alla marittimità la centralità che spetta loro nella costruzione dell’identità e dello sviluppo dell’Italia.
In silenzio, quasi di soppiatto, il titolo glorioso di Capitano di Lungo Corso è stato cancellato dal panorama giuridico italiano. Nessun clamore, nessuna difesa da parte delle istituzioni, nessuna voce autorevole a sollevarsi contro la scomparsa di una delle figure simbolo della tradizione marittima nazionale. Un nome che evocava rispetto, responsabilità, esperienza e un intero mondo legato alla navigazione d’alto mare, viene ora relegato nei libri di storia e nei ricordi di chi ha vissuto quegli anni di sacrificio e orgoglio.
Per decenni, il titolo di Capitano di Lungo Corso ha rappresentato il vertice della carriera marittima, ottenuto con studio, esami severi, imbarchi duri e un lungo tirocinio fatto di mare vero, di tempeste, approdi lontani e giornate scandite dal tempo nautico e dalla disciplina di bordo. Era la qualifica che legittimava il comando su ogni tipo di nave mercantile, su ogni rotta e oceano del mondo. Era un sigillo di competenza che testimoniava la lunga tradizione marinara di un Paese che, per secoli, ha vissuto guardando al mare come destino e risorsa.
Oggi, tutto questo è stato spazzato via da una riforma burocratica. Il titolo viene sostituito da dizioni generiche e da una struttura di certificazione allineata alle convenzioni internazionali, ma svuotata di quella identità tutta italiana che riconosceva ai nostri ufficiali una specificità formativa e operativa. È il prezzo pagato alla standardizzazione europea e globale, ma è anche un segnale culturale inquietante: il distacco definitivo da una visione nazionale del mare, dalla consapevolezza di essere stati, anche, una Patria marinara.
Questa abolizione, insieme alla crisi della formazione nautica tradizionale e al progressivo allontanamento delle nuove generazioni dal lavoro marittimo, costituisce l’ennesimo passo verso l’oblio di quella civiltà del mare che ha fatto grande l’Italia.
Non c’è futuro nel mare se non si conosce e non si onora il proprio passato. Cancellare il Capitano di Lungo Corso non significa solo eliminare un titolo professionale: significa recidere un legame storico, simbolico e identitario con quella parte del Paese che, per secoli, ha navigato, commerciato, esplorato, salvato vite e scritto pagine fondamentali della nostra economia e della nostra cultura.
Serve una riflessione profonda. Perché mentre celebriamo, con tardiva retorica, i porti “smart” e le autostrade del mare, perdiamo – nell’indifferenza generale – la memoria viva di chi quel mare l’ha vissuto davvero. E senza memoria, si sa, anche la rotta migliore finisce per perdersi.