Era una sera come tante, al solito bar situato nella piazza principale del porto di Marina Grande a Procida. Il mormorio del mare, sempre presente come un respiro profondo e costante, si mescolava alle voci dei miei amici. Con loro trascorrevo il tempo tra chiacchiere leggere e risate semplici, quelle che nascono spontanee dalla giovinezza e dal sentirsi parte di un piccolo mondo condiviso. Eravamo lì, come ogni sera, senza fretta, ognuno con i propri sogni in tasca e la certezza che la vita ci avrebbe condotto, prima o poi, oltre l’orizzonte visibile.
Ma quella non era una sera qualunque. Era il 6 dicembre 1957, giorno di San Nicola, il mio onomastico. Una data che, da bambino, avevo sempre vissuto con un pizzico di festa e affetto in famiglia, ma che quell’anno si sarebbe caricata di un significato completamente nuovo. Un segno, un passaggio, un inizio.
Mentre il tempo scorreva tra brindisi improvvisati e battute che si rincorrevano come onde leggere, il postino entrò nel bar con passo deciso. Teneva in mano un foglio piegato, un telegramma. Appena pronunciò il mio nome, il vociare si abbassò di colpo, come se anche il mare si fosse fatto silenzioso per ascoltare.
Il telegramma mi convocava a Napoli, agli uffici della Flotta Lauro, per completare le pratiche di imbarco sulla M/N” Lucrino”, che si trovava a La Spezia. Era arrivato, quasi inaspettatamente, il momento di partire per il mio primo imbarco. Di lì a poco, avrei lasciato la mia isola, i miei amici, le mie abitudini.
Fu un misto di emozioni forti e contrastanti: la sorpresa, la paura, l’entusiasmo, la consapevolezza improvvisa che stava per iniziare davvero la mia vita sul mare. Un richiamo che avevo dentro da sempre e che ora prendeva forma, nel giorno del mio onomastico, quasi fosse un segno del destino. Ero appena diplomato Allievo Ufficiale di Coperta all’Istituto Tecnico Nautico “Francesco Caracciolo” di Procida, e quella chiamata rappresentava l’ingresso nel mondo che sognavo: il mondo delle navi, dei porti, dei viaggi e della scoperta.
Da quel momento, tutto cambiò. Il bar, gli amici, l’atmosfera leggera della sera si allontanarono come una marea che si ritira, lasciandomi solo con il peso dolce dell’attesa e dell’ignoto. Era cominciata la mia storia di mare. E nulla, da quel momento in poi, sarebbe stato più lo stesso.
Fu in quel preciso istante, nel chiaroscuro del bar di Marina Grande, che capii: la mia vita sul mare era appena cominciata.
Il telegramma bruciava ancora tra le mani quando, finita la girandola di commenti e battute con gli amici, mi incamminai verso casa. Il cuore mi batteva forte. Dovevo parlare con i miei genitori, ma prima ancora sentivo il bisogno di avvisare mio zio Salvatore, figura di riferimento, uomo di mare e di fiducia. C’era da prepararsi. E in fretta.
Non avevo mai fatto una valigia vera. Non sapevo cosa mettere, né come sistemarla. Era dicembre, e il freddo in Italia già si faceva sentire. Chissà cosa mi aspettava. Mio zio, con la solita generosità, mi prestò la sua vecchia valigia. La sistemai alla meglio, chiudendola con il consueto spago, fedele compagno dei bagagli d’altri tempi.
Una volta a Napoli, però, decisi di comprare una valigia nuova. Feci il cambio nel basso di una signora partenopea, di quelle che ti aprono la porta come se ti conoscessero da sempre. Una scena tipicamente napoletana: io che rovescio il contenuto delle valigie tra le piastrelle sbrecciate e il profumo del caffè che arriva dalla cucina. Alla fine, restituii la valigia a mio zio, ma conservai lo spago. Quello non si dimentica.
Terminate le formalità negli uffici della Flotta Lauro e alla Capitaneria, quella sera presi il treno per La Spezia, in compagnia di un membro dell’equipaggio. Per laprima volta prendevo un treno, ed era già una novità per me. Ma il vero imprevisto fu quando, addormentati dal viaggio, superammo la fermata di La Spezia e finimmo a Genova. Da lì, prendemmo un taxi, e attraversammo il Passo del Bracco, un tratto montano impervio e tortuoso che, in quel dicembre del 1957, era sferzato da pioggia e vento. La strada si arrampicava tra curve strette e boschi cupi, un viaggio notturno che sembrava uscito da un racconto gotico. Pagammo una somma enorme per quel tragitto, ma arrivammo finalmente a destinazione.
Arrivato a bordo della nave, mi presentai al Comandante. Era il 12 dicembre 1957, giorno in cui iniziò ufficialmente la mia vita da Allievo Ufficiale di Coperta. La nave partì subito alla volta di Norfolk. I primi giorni furono tranquilli, finché una tempesta — di quelle che il mare tiene in serbo per mettere alla prova i novizi — ci investì con onde alte come palazzi. La nave diventò quasi ingovernabile. Il battesimo del mare non fu dolce: fu rude, lungo, spietato. Ma necessario. Perché il mare non si regala, si conquista.
Arrivammo a destinazione il 28 dicembre, sfiancati ma interi e il porto di Norfolk ci accolse in una fredda giornata di inverno. Durante la sosta di tre giorni per la caricazione del carbone, ricevetti un pacco dai parenti di Brooklyn. Un piccolo tesoro fatto di capi di vestiario adatti al clima preziosi per il resto del viaggio.
Il ritorno fu tutt’altro che facile. Altra burrasca, altra prova. Il mare sembrava deciso a metterci ancora alla prova, quasi volesse scolpire nelle nostre ossa la memoria della sua forza. Tra onde alte e vento rabbioso, la M/N “Lucrino” faticava a mantenere la rotta, e ben presto si manifestò un problema più grave: un’infiltrazione d’acqua nello scafo.
La decisione fu immediata e obbligata: rotta verso le Bermude. Fu una deviazione forzata, certo, ma anche un’occasione inaspettata di scoperta. Quando, dopo giorni di mare grosso, l’isola di Bermuda apparve all’orizzonte, sembrava un miraggio. La nave fece il suo ingresso a HamiltonHarbour, un’insenatura calma e protetta che sembrava un abbraccio dopo tanta tempesta. Il porto era ordinato, elegante, con le case dai colori pastello adagiate sulle colline verdi. Le navi all’ancora oscillavano leggere e sembrava che il tempo lì scorresse in un modo tutto suo, più lento, più gentile. Hamilton, con il suo clima mite e l’atmosfera coloniale inglese, ci accolse come un’oasi, e io, pur giovane e inesperto, sentii di essere finito in un angolo raro del mondo. Restammo alcuni giorniper le riparazioni, e camminare per quelle strade ordinate, respirare quell’aria di quiete dopo il tumulto dell’oceano, fu un’esperienza che non ho mai dimenticato.
Quando riprendemmo la navigazione, il mare non fu clemente fin da subito. Ancora giorni duri, ancora fatica. Ma poi, finalmente, il cielo si aprì, le onde si placarono, e la prua puntò dritta verso Genova, dove arrivammo il 3 marzo 1958.
Fu lì, nella Superba, che scoprii un’altra anima del mare. Genova non era solo un porto, era una città che respirava la vita marinara in ogni vicolo, in ogni banchina, in ogni voce che riecheggiava tra le strade strette e le facciate severe. Durante i giorni di sosta per lo scarico del carbone, ebbi modo di conoscerla davvero: camminavo per le sue salite ripide, entravo nei bar dei caruggi, ascoltavo storie in ogni accento. E lì, in mezzo a quella confusione ordinata, incontrai altriprocidani, imbarcati su navi ferme in porto, fratelli di mare che, come me, cercavano il loro posto tra le onde e i porti del mondo.
Ogni chiacchierata era un frammento di casa, ogni volto noto un legame che si rinnovava. Capivo, in quei momenti, che essere uomo di mare voleva dire anche appartenere a una comunità senzaconfini, fatta di voci, esperienze, porti condivisi.
Dopo le operazioni di discarica, alla nave venne assegnato un nuovo ormeggio per alcuni lavori di riparazione, ma dopo pochi giorni fu decisa la sua messa in disarmo e tutto l’equipaggio venne sbarcato. Era il 12 marzo 1958, tre mesi esatti dopo il mio primo imbarco. Sbarcai, tornai a Procida con la mia prima esperienza di mare finalmente compiuta. Era stata dura, sì. Le burrasche, la fatica, la paura nonmancavano. Ma nulla di tutto ciò aveva spento in me il desiderio di tornare. Anzi, quella rude iniziazione aveva scolpito dentro di me la certezza che il mio posto, almeno per allora, era a bordo.
La M/N” Lucrino”, la mia prima nave, aveva una lunga e travagliata storia alle spalle. Costruita nel 1917 nei cantieri di Sunderland, in Inghilterra, ex Afghanistan, poi ex Aberdeen fu acquistata nel 1938 dalla Flotta Lauro, che le diede il nome di Lucrino. Durante la guerra subì danni che resero necessari lunghi lavori di riparazione a Genova. Riprese regolarmente il mare nel 1947, e per oltre un decennio, navigò ininterrottamente salvo le soste per lavori periodici e visite di classe. Dal 1959 venne impiegata in un ruolo diverso ma strategico: trasbordava merci dalle grandi navi di linea italiane nel Golfo Persico, ottimizzando i tempi di smistamento e consegna in una zona in piena espansione commerciale.
La incrociai proprio lì, nella estate del 1959, nel Golfo Persico, quando ero a bordo della petroliera “Tidewater” della Getty Oil Company Quando la vidi, quasi ferma e laboriosa sotto il sole accecante di quelle acque lontane, fui colto da un’improvvisa emozione. La riconobbi subito: la sua sagoma, i colori della Flotta Lauro, quel nome che ormai conoscevo a memoria. Fu come rivedere un volto familiare in mezzo a una folla di sconosciuti. Mi misi ad osservarla con il binocolo come rapito, mentre ci avvicinavamo sempre di più. Mi ricordo che chiesi al Comandante di poter passare il più vicino possibile alla nave spiegandogli il perché. Il Comandante acconsenti e, arrivati al traverso sulla sinistra, mi venne spontaneo salutarla con la mano con gioia, sorpresa e un senso profondo di commozione. Quella non era solo una nave, era la mia nave, la prima, quella su cui avevo mosso i miei primi passi da allievo, quella che mi aveva temprato e spinto, senza saperlo, a diventare uomo di mare anche se veniva fuori la grande differenza tra la “vecchia carretta” e la nuova superpetroliera sulla quale ero imbarcato. Rivederla fu come chiudere un cerchio: un segno, forse, che la mia strada era davvero quella. Le nostre rotte si erano separate, ma si erano anche incrociate ancora, in un luogo tanto distante. Mi sentii parte di una storia più grande, che iniziava da Procida e si spingeva oltre gli oceani, fatta di navi, porti e di quei legami invisibili che solo il mare sa creare.