Sbarcai dalla Homeric a New York il 29 aprile 1966, dopo l’ultima crociera caraibica di una lunga stagione. Per molti dell’equipaggio era tempo di rientro, e infatti un gruppo nutrito fu trasferito a bordo dell’Oceanic, la nuova ammiraglia della Home Lines, in partenza per l’Italia dove avrebbe effettuato i lavori annuali di garanzia nel cantiere di Monfalcone.
Anch’io fui incluso tra quelli destinati al trasbordo, ma feci una scelta che mi avrebbe offerto un’occasione preziosa: rimanere a bordo dell’Oceanic non solo per tutta la traversata ma anche per il successivo periodo in cantiere, con l’idea — anzi, la speranza — di poter tornare a imbarcarmi su quella nave nuova, moderna, ambiziosa. Una nave che non trasportava solo passeggeri, ma incarnava una visione proiettata nel futuro del turismo di lusso via mare.
Fu così che iniziò una nuova parentesi della mia vita marittima. Una parentesi breve ma intensa. Lasciata alle spalle la vitalità americana di Manhattan, ci allontanammo lentamente dalla banchina del porto di New York, mentre i profili familiari dei grattacieli si sfumavano tra la foschia dell’Hudson. La grande Oceanic sembrava scivolare con una solennità misurata, già proiettata verso l’Atlantico.
Il ponte era affollato di emozioni più che di persone. C’era chi rideva, chi fumava in silenzio, chi scrutava l’acqua sotto di sé, pensando forse al ritorno a casa, o a ciò che avrebbe lasciato. Io, in disparte, respiravo quel momento come una soglia da attraversare. Lasciavo una nave, un’esperienza, un tempo della mia vita. Ma non sapevo ancora esattamente cosa stavo per incontrare.
L’Oceanic, varata un anno prima, era diversa da tutto ciò che avevo conosciuto. Aveva un’eleganza razionale, geometrica, quasi fredda rispetto alla più barocca Homeric. Le sue linee erano tese, affilate, pensate per la velocità e l’efficienza, ma anche per ospitare con stile il comfort moderno. Era una nave nata per sorprendere, e riusciva a farlo già camminando per i suoi corridoi silenziosi e scintillanti di nuovi materiali.
La traversata cominciò sotto il cielo ampio dell’Atlantico. Lontani ormai dalle coste americane, ci ritrovammo presto a fare i conti con l’oceano profondo, familiare e misterioso. La grande nave affrontava le onde con sicurezza, ma l’Atlantico non fa mai sconti. La sua voce resta quella di sempre: grave, monotona, ipnotica. Ogni guardia, ogni turno sul ponte, ogni cambio di rotta sembrava avvolto in un tempo più lento, quasi sospeso. Attraversare l’Atlantico da est verso ovest è sfidare il tempo; farlo da ovest verso est, come in questo caso, è come rincorrerlo. E noi lo rincorrevamo con costanza, passando notti lunghe, albe incerte, cieli punteggiati da stelle più antiche della nostra civiltà.
Essere a bordo della Oceanic come Secondo Ufficiale rappresentava per me non solo una promozione, ma un segno concreto di stima e fiducia da parte della compagnia. Non era una nave qualunque. La Oceanic, con la sua elegante sagoma bianca, il ponte di comando dalle linee moderne e il fumaiolo blu decorato con la banda gialla della Home Lines, era considerata una delle navi da crociera più riuscite del suo tempo, che incantava ovunque approdasse con la bellezza delle sue linee snelle, l’eleganza dei saloni interni, la modernità degli impianti e il fatto di essere a bordo come Secondo ufficiale e nuove responsabilità, mi dava un senso di compimento che ancora oggi ricordo con orgoglio.
Il mio turno era la classica prima guardia -04/08-16/20. In Atlantico, con la nave sgombra da passeggeri, la vita di bordo assumeva una dimensione quasi sospesa, dove il ritmo della giornata era scandito unicamente dai calcoli astronomici, dalle osservazioni meteorologiche e dalle comunicazioni via radio. All’alba, il cielo si accendeva lentamente sopra la linea dell’orizzonte, e noi, in plancia, misuravamo l’altezza delle stelle con il sestante, tracciando la posizione giornaliera con la cura che solo l’oceano sa imporre. Al tramonto, le stelle si affacciavano una ad una, limpide e brillanti, e ancora una volta il sestante tornava in mano, fedele strumento del marinaio attento.
La Oceanic, anche in traversata tecnica, restava viva: gli impianti erano accesi, le cucine funzionanti, i locali in ordine. I saloni deserti sembravano custodire un respiro silenzioso, e passeggiare lungo i ponti all’ora del tramonto era un’esperienza di rara bellezza. La nave era nostra, solo nostra, e in quel silenzio carico di significato si rafforzava il legame tra l’uomo di mare e la sua nave.
Dopo alcuni giorni di navigazione, comparve all’orizzonte il profilo vago delle Azzorre, come un saluto lontano. Poi, infine, lo Stretto di Gibilterra. Lo avevo già attraversato tante volte con le petroliere della Getty, ma ogni volta quel passaggio mi parlava in modo diverso. Stavolta fu un incontro tra due memorie: la mia vita passata tra i carichi di greggio e quella presente, tra passeggeri e cabine arredate come salotti.
Gibilterra era la porta del Mediterraneo, e il suo ingresso fu come un ritorno a casa. Il mare si fece più calmo, il colore dell’acqua più familiare. Navigavamo lungo coste conosciute: le Baleari, la Sardegna lontana, la penisola italiana. La prima tappa, con mia grande soddisfazione, fu Napoli. L’ingresso nel Golfo fu per me un momento speciale, uno di quelli che restano impressi per sempre. A dritta, in lontananza, si stagliava la sagoma leggendaria di Capri, immersa in un velo azzurro. A sinistra, Ischia mostrava la sua mole verdeggiante, e poco dopo, apparve Procida. Il comandante, uomo sensibile e attento, accostò quanto bastava affinché potessi, con il binocolo, cercare la mia casa esposta verso il mare, affacciata su quel tratto familiare di costa. La vidi. E fu un’emozione profonda, un sussulto dell’anima che ancora oggi mi stringe il cuore al ricordo. Il golfo non era mai stato così bello, e la Oceanic sembrava per un istante diventare la regina del mio cuore.
Lo sbarco di parte dell’equipaggio avvenne a Napoli, mentre noi proseguimmo alla volta di Trieste, per raggiungere poi il cantiere di Monfalcone. Navigare nel cuore del Mediterraneo, costeggiare la costa italiana,passare per lo stretto di Messina, entrare nel mare Adriatico fu un’altra sequenza di emozioni. L’Adriatico si mostrò placido e familiare, e l’arrivo a Trieste e infine a Monfalcone segnò l’inizio del periodo di sosta tecnica per i lavori di garanzia.La grande Oceanicentrò lentamente nel bacino del cantiere, accolta come una regina da sottoporre a visita. Lo scafo venne ispezionato, le eliche smontate, le pitture rifatte. Ma non era solo un lavoro tecnico: in cantiere ogni dettaglio diventava essenziale, ogni vite raccontava una storia, ogni cabina un mondo in miniatura da revisionare.
Rimasi a bordo per l’intero periodo dei lavori. Non erano giorni di navigazione, ma non mancava il senso del dovere. Si trattava di controllare, osservare, annotare. Il silenzio del mare fu sostituito da quello, ben più rumoroso, dei martelli, delle torce elettriche, dei tubi in pressione. Ma era un altro modo per conoscere la nave, dall’interno. Vederla spogliata della sua veste di gala, nel suo scheletro vivo. Furono giorni operosi ma anche rilassati, dove ebbi modo di conoscere a fondo la nave di esplorarne i compartimenti più nascosti,di approfondire i dettagli meccanici e impiantistici .Ogni angolo, ogni paratia, ogni cabina raccontava la sapienza con cui quella nave era stata concepita e costruita.
Nel tempo libero camminavo lungo le banchine del porto o mi perdevo tra le vie di Monfalcone, cittadina operaia e concreta, dove ogni bar sembrava popolato da gente che il mare lo conosceva per davvero. Erano giorni di attesa, ma anche di riflessione. E quando finalmente la nave fu pronta per uscire dal bacino, io ero pronto a sbarcare.
Era giunto il momento di tornare a Procida. Salii su un treno per Napoli, col cuore che alternava nostalgia e sollievo. Quel ritorno non fu solo un intermezzo tra un imbarco e l’altro. Fu il passaggio, consapevole, verso una nuova dimensione della mia vita. Iniziava una stagione più domestica, ma non per questo meno intensa. In mare ci sarei tornato, certo. Ma con occhi diversi.
Ripensandoci oggi, quel viaggio sulla Oceanic non fu solo una traversata dell’oceano. Fu il ponte che mi traghettò da una fase della giovinezza — fatta di esplorazione, di sogni e di fatica — verso una nuova maturità. La nave, con la sua imponenza, il suo silenzio e la sua precisione, sembrava farmi da specchio. Mostrava cosa si può diventare quando si conosce a fondo ciò che si è.
ll rientro a Procida fu dolce, intriso di nostalgia e di speranza. Le giornate trascorse a bordo della Oceanic, nei lunghi passaggi dall’Atlantico all’Adriatico, erano ancora vive nella mia mente, come onde che continuavano a infrangersi anche dopo la fine della mareggiata. Avevo conosciuto da vicino quella nave moderna ed elegante, considerata da molti una delle navi da crociera più riuscite del suo tempo, destinata a diventare la celebre Regina dei Caraibi. Ne avevo esplorato i ponti, i locali, la plancia, e vissuto il ritmo ancora giovane della sua vita operativa. E in me era maturato un desiderio vivo e tenace: quello di tornarvi un giorno. Desiderio che si sarebbe realizzato negli anni successivi.
Lasciai la nave con una valigia più pesante del solito. Dentro, oltre alle solite divise ripiegate, le carte nautiche annotate e il binocolo, c’era qualcosa di meno visibile ma più prezioso: la consapevolezza di aver fatto un passo importante nel mio cammino di uomo di mare.
Quello da New York a Monfalcone, passando per lo Stretto di Gibilterra, Napoli e l’Adriatico, non era stato solo un viaggio tecnico, un trasferimento privo di passeggeri e di tratte turistiche. Era stato un viaggio denso di significato. Un tratto di rotta non segnato sulle carte ufficiali, ma inciso nella mia coscienza. Ogni alba osservata dal ponte, ogni turno di guardia con il sestante in mano, ogni silenzio tra le onde, erano diventati momenti di crescita interiore, piccoli approdi in un mare più vasto: quello dell’esperienza e della maturazione.
La Oceanic era rimasta alle mie spalle, ancorata al molo del cantiere, ma già proiettata verso un futuro di eleganza e successi. Io, invece, rientravo nella mia isola, accolto dal profilo familiare delle case affacciate sul mare, e da un futuro personale che stava per aprirsi: in quel periodo di vacanza, avrei firmato un contratto non di lavoro, ma d’amore. Il mio matrimonio.
Da New York e Monfalcone, tra oceani e officine, avevo attraversato non solo mari ma me stesso, pronto a guardare avanti. E tornavo a casa con il mare negli occhi e la terra nel cuore.