Il giorno della partenza da Napoli per New York a bordo della nave “Queen Frederica”il 23 marzo 1965 , fu di quelli che restano impressi nel cuore, più che nella memoria. Una mattina chiara, con il Vesuvio che si stagliava all’orizzonte e la città ancora assonnata alle nostre spalle. Mentre il personale di bordo ultimava le operazioni e i marinai ai cavi attendevano l’ordine di mollare, un silenzio denso si era steso sulla banchina. Quando i motori vibrarono lievemente e la nave cominciò a staccarsi lentamente dal molo, sentii quel classico nodo in gola che accompagna ogni vero marinaio al momento del distacco. Non era malinconia, ma una sorta di struggimento antico, lo stesso che avevano provato intere generazioni di emigranti guardando sfumare la costa italiana.
A bordo, insieme a me e ad altri venti membri dell’equipaggio Home Lines, pronti a imbarcare sulla S/S” Homeric” da raggiungere a New York, viaggiavano passeggeri di ogni tipo, tra cui un gruppo particolare. Erano uomini e donne con valigie cariche di abiti, sì, ma anche di speranze. “Emigranti” moderni, diretti negli Stati Uniti per ricongiungersi con le famiglie o per cercare un lavoro, una svolta, un futuro. Nei loro sguardi ritrovai la stessa emozione che sentivo dentro me: l’Italia che restava, l’America che attendeva. Non erano certamente come quei flussi drammatici di una volta, ma pur sempre carichi di speranza per cercare qualcosa che in Italia per loro ancora mancava.
Ricordo bene le sensazioni di quel giorno. La nave che si staccava lentamente dalla banchina del porto partenopeo, mentre sulla costa, già lontani, i contorni sfumati della città si confondevano nella foschia. Il rumore ritmato dei motori, l’acqua increspata dalla manovra, i volti silenziosi dei passeggeri che guardavano il mare — tutto contribuiva a creare quell’atmosfera sospesa, a metà tra la nostalgia e l’attesa.
Con l’imbarco sulla Homeric cominciava così la mia stagione caraibica, una parentesi luminosa in una carriera fatta di sudore, sveglie all’alba e vedette notturne. Una stagione che sembrava uscita da un depliant da crociera, e che invece celava, sotto la superficie, il duro mestiere di sempre. Ma con colori più vivi, venti più caldi, e una sottile, quotidiana meraviglia. Non più i silenzi densi delle petroliere in rada, ma la musica che saliva dai saloni di prima classe, i profumi delle cucine internazionali, il via vai elegante di passeggeri venuti da ogni angolo d’America.
A bordo della Homeric, il clima era ordinato ma disteso. L’equipaggio — variegato, in parte italiano, in parte internazionale — sembrava vivere in una bolla parallela, sospesa tra i doveri marittimi e il teatro di bordo. Camminando lungo i corridoi interni, ma lucidi e rivestiti di legni pregiati, mi resi conto che ogni cosa aveva una doppia faccia: quella operativa e quella rappresentativa. Anche un ufficiale, qui, rappresentava qualcosa. L’Italia, certo, ma anche un’idea di eleganza, di misura, di garbo.
Il comandante, un uomo di marina solido e affabile, mi accolse con un sorriso breve e una stretta di mano decisa. “Benvenuto nel teatro del mare,” disse. E non aveva torto. Tutto sembrava orchestrato: dalla partenza ai saluti, dai suoni ai profumi. La nave, elegante e possente, affrontava quelle brevi tratte come una dama sul tappeto rosso. Ma dietro la vetrina turistica si nascondeva, ancora e sempre, il lavoro duro. L’orologio non faceva sconti: le manovre, gli orari, le consegne, la sicurezza. Nessuna frivolezza, sebbene la cornice fosse quella.
Mi assegnarono la cabina a poppa, luminosa, ordinata, con una scrivania e un oblò sempre affacciato su un cielo in movimento. Fu lì, durante una delle prime sere, che ascoltai per la prima volta il suono di un’orchestra proveniente dal ponte inferiore. Avevo appena finito il mio turno di guardia e mi sedetti accanto all’oblò, lasciando che la musica fluttuasse insieme alle onde.
La vita a bordo aveva un’altra temperatura. I passeggeri si svegliavano tardi, si vestivano per cena, danzavano, si abbronzavano. L’equipaggio lavorava in silenzio. Ogni giorno, ogni tratta, era un piccolo mondo chiuso: passeggeri che si conoscevano, si perdevano, si ritrovavano. Storie brevi, consumate tra un porto e l’altro.
Qualche volto tornava. Signore eleganti, signori silenziosi, famiglie americane in cerca di esotismo, giovani in viaggio di nozze. A volte li osservavo mentre salivano la passerella, sorridenti, spaesati. E pensavo al mare come a un grande palcoscenico che cambia gli attori, ma mantiene il copione.
Nel frattempo, anch’io cambiavo. Ogni porto, ogni partenza, ogni emergenza gestita, mi portavano più vicino a un’idea più matura di navigazione. Non era più solo il mare da sfidare o da domare, ma il mondo intero da accompagnare e osservare. Fu durante una delle ultime rotazioni estive del 1965 che la Homeric, per motivi tecnici, interruppe momentaneamente il servizio. Il 12 settembre sbarcai temporaneamente, con la prospettiva di un breve periodo a terra. Erano giorni di sospensione, di attesa, come una pausa tra due battute di un concerto marino. Al mio ritorno a bordo, il 24 settembre, mi attendeva una notizia inaspettata e gradita: il passaggio di grado da Terzo a Secondo Ufficiale. Un piccolo passo, certo, ma colmo di significato. Era il riconoscimento di un cammino silenzioso, fatto di turni, attenzione e responsabilità. Sentii in quel momento, più che in altri, di appartenere pienamente a quella nave e alla sua rotta.
Un giorno, a bordo, mi imbattei in un vecchio marittimo greco, che serviva come cameriere. Mi offrì un caffè e, parlando del suo lungo peregrinare, mi disse: “Non c’è nave più strana di una nave da crociera. Porta la gente lontano solo per farla sentire più vicina.”
Aveva ragione. Su quella nave, in mezzo a danze caraibiche, serate italiane e colazioni all’americana, imparai che il mare non cambia, ma noi sì. E che ogni viaggio non è mai solo geografico, ma umano.
La prima crociera fu quella classica della stagione caraibica, quella che presto avrei imparato a memoria: New York – San Juan – St. Thomas – Curaçao – Kingston – Nassau – New York. Un circuito settimanale che disegnava un anello tra i tropici, un percorso fatto di colori intensi, brezze profumate e approdi che sembravano usciti da una cartolina.
New York, con le sue banchine monumentali e l’incessante movimento di navi e rimorchiatori, era la partenza e il ritorno. Ogni volta che si lasciava Manhattan alle spalle, la sagoma della città – con i suoi grattacieli aguzzi e il profilo inconfondibile della Statua della Libertà – sembrava salutarci con un misto di maestosità e malinconia. L’imbarco era sempre una piccola rappresentazione teatrale: passeggeri emozionati, orchestrine in sottofondo, saluti affrettati e promesse sussurrate sotto il brusio dei marinai in manovra.
La prima tappa, San Juan, capitale di Porto Rico, ci accoglieva con il calore tipico dei porti spagnoli d’oltremare. Il molo si apriva su una città vivace, dove il vecchio e il nuovo convivevano in armonia. Le mura della città antica, il forte di San Felipe del Morro, le piazze coloniali, tutto parlava di un tempo passato, ma ancora vivo. I passeggeri scendevano incuriositi, attratti dai colori, dai ritmi del merengue, dal profumo dolciastro del rum.
Poi arrivava St. Thomas, nelle Isole Vergini Americane. Un piccolo paradiso, con baie turchesi e spiagge finissime. Il porto di Charlotte Amalie era raccolto, quasi intimo, e la nave sembrava entrare in punta di piedi in quel paesaggio perfetto. Qui i passeggeri trovavano la quintessenza della vacanza: snorkeling, mercatini artigianali, cocktail al cocco. Per noi dell’equipaggio, invece, St. Thomas significava anche un raro momento di quiete, il tempo per rimettere in ordine le idee.
Curaçao era un altro mondo. L’isola olandese, con le sue casette dai tetti rossi e le facciate dai colori accesi, sembrava un angolo d’Europa trapiantato nei Caraibi. Il porto di Willemstad, attraversato dal ponte galleggiante Queen Emma, accoglieva la nave come una regina. Il caldo era sempre torrido, ma mitigato dal vento costante che portava l’odore del sale e del sole. L’isola era famosa per i suoi liquori blu e per la gentilezza discreta dei suoi abitanti.
Kingston, la capitale della Giamaica, era forse lo scalo più complesso e affascinante. Un porto dal carattere forte, dove la musica – il mento, i primi battiti del reggae – sembrava nascere direttamente dalla terra. I quartieri poveri, la gente nei mercati, il traffico caotico: tutto raccontava una storia diversa, più dura, più vera. Anche i passeggeri più entusiasti tornavano a bordo con uno sguardo più pensoso. Per noi, Kingston era soprattutto attenzione: manovre precise, soste brevi, ma un fascino che ti restava addosso.
Infine, Nassau, nelle Bahamas. Un ritorno alla leggerezza, alle casette color pastello, ai negozietti per turisti e alle spiagge da sogno. Qui si concludeva idealmente il ciclo prima del rientro a New York. Spesso si organizzavano feste in spiaggia, escursioni guidate, immersioni. La città sembrava vivere in funzione del nostro arrivo. E per noi dell’equipaggio era quasi una seconda casa: conoscevamo i ristoranti, i moli, persino i volti di chi ci attendeva a ogni scalo.
E poi, di nuovo, l’oceano aperto. Due giorni di navigazione verso nord, verso il grande porto d’America. La nave si svuotava lentamente di euforia e si caricava di nostalgia. I passeggeri parlavano meno, scrivevano cartoline, facevano le ultime foto. Per noi ufficiali, invece, cominciava il lavoro più intenso: rapporti, bilanci, preparazione per la nuova crociera. Ma anche quella fatica, in fondo, faceva parte di un rito.
Il ciclo si ripeteva, ma mai uguale. Bastava un volto nuovo, un vento diverso, un’alba particolare, per cambiare il sapore del viaggio. E intanto, la Homeric solcava quel tratto di oceano come una signora d’altri tempi, unendo con discrezione il Nord e il Sud, i Caraibi e le Americhe, la routine e il sogno.
Fu un susseguirsi di stagioni e traversate, di partenze e ritorni che sembravano non conoscere fine. Ogni crociera aveva il suo ritmo, il suo profumo, i suoi volti. I porti caraibici, ormai familiari, si alternavano come fotogrammi sempre nuovi su una pellicola antica. E intanto il tempo scorreva silenzioso, nel rumore costante delle eliche.
Poi venne il giorno in cui il tempo della Homeric volse al termine. Era il 29 aprile 1966 quando sbarcai da quella nave che per tredici mesi aveva rappresentato la mia casa, il mio orizzonte quotidiano, la mia scuola e il mio rifugio. Lo sbarco avvenne a New York, come a chiudere simbolicamente un cerchio iniziato proprio lì, in quella città che non dorme mai e che avevo imparato ad amare a modo mio, nei silenzi delle albe in porto o tra i riflessi della pioggia sull’asfalto della 7ª Avenue.
Lasciare la Homeric fu come congedarsi da una parte di me stesso. Salutare compagni, riti, ritmi che conoscevo ormai a memoria. Ma sapevo anche che il mare non finiva lì. E portavo con me tutto quello che quell’esperienza mi aveva insegnato: il valore della responsabilità, la pazienza della navigazione, l’arte silenziosa del comando, il rispetto per le distanze e per le vite altrui.
Il tempo della Homeric quindi si chiudeva, ma restava inciso nella mia memoria con la nitidezza di un tramonto tropicale. Un tempo di ordine, di fatica e di meraviglia, vissuto con la dignità semplice dei marinai e l’orgoglio discreto di chi ha avuto la fortuna di conoscere il mondo dal ponte di una nave.