Era l’autunno del 1963, e New York sembrava vestirsi apposta per noi. Non il grigio e piatto autunno che talvolta immagina chi non l’ha vissuto, ma quello vivido e teatrale della costa atlantica: un intreccio di foglie rosse, gialle e bronzo che sembravano dipinte ad acquarello lungo i viali della Grande Mela, l’aria nitida e frizzante che sapeva di cambiamento e promessa. Le vetrine dei grandi magazzini riflettevano il cielo limpido e le prime luci delle feste, mentre il passo dei passanti si faceva più svelto, quasi a voler precedere l’inverno. Era un autunno che accendeva i sensi, che lasciava spazio all’introspezione, e che per noi, uomini di mare, rappresentava un raro e prezioso momento di contatto con una città viva, pulsante e in continuo movimento.
Due giorni di sosta a New York non erano previsti nel nostro calendario di bordo, ma furono accolti con gratitudine da tutto l’equipaggio. La compagnia li aveva programmati per esigenze logistiche e tecniche: rifornimenti, ispezioni di routine e qualche intervento manutentivo a bordo della nave prima di riprendere il servizio sulla rotta New York–Nassau. Nulla di straordinario, ma abbastanza da giustificare una pausa di quarantott’ore, durante le quali la M/N”Italia”, ormeggiata a Manhattan come un’enorme creatura addormentata, sembrava respirare al ritmo lento della città.
Per noi uomini di bordo, abituati a vivere scanditi dai turni e dalle onde, quella breve parentesi rappresentava molto più di un intervallo tecnico: era l’occasione per un primo vero respiro di terra dopo settimane di navigazione. E non una terra qualunque, ma New York. Una città che, già al primo sguardo, si imponeva con la forza di un simbolo: i grattacieli affilati che tagliavano il cielo, il brulichio incessante dei moli, il flusso impetuoso della gente, delle automobili, delle insegne luminose. Era ottobre del 1963 e l’autunno, con i suoi colori carichi e l’aria fresca, accarezzava i viali di Manhattan e i nostri visi stanchi, riportandoci, per un istante, alla bellezza semplice e dimenticata delle stagioni
Due giorni di sosta nella città che non dorme mai furono per noi, come una lunga boccata d’aria dopo settimane di navigazione tra New York e Nassau. I viaggi, con le sue albe solitarie, i turni di guardia e il rollìo costante della nave, ci aveva lentamente staccati dal mondo. E ora, ormeggiati lungo le banchine animate del porto di New York, la realtà della città ci investiva all’improvviso, con tutta la sua forza e il suo splendore. I grattacieli, simili a scogliere verticali d’acciaio e vetro, svettavano sul profilo del fiume Hudson; il brusio dei moli, i clacson dei taxi gialli, le voci dei portuali e il vento fresco dell’autunno ci davano il benvenuto in un’America che fino a quel momento avevamo solo immaginato.
Ma prima di salpare ancora, ci veniva concesso quel piccolo lusso raro e prezioso: due giorni di libertà, anche se intervallati da alcune ore di servizio, da vivere intensamente e da conservare nella memoria come una fotografia in bianco e nero.
Un tempo breve, certo, ma sufficiente a lasciare un segno. In quel poco spazio, tra l’imbarco e la ripartenza, tra i doveri di bordo e la voglia di scoperta, ci buttammo nella città come ragazzi affamati di mondo.
Decidemmo di non perdere tempo e di assaporare ogni passo, ogni scorcio, ogni sapore. Usciti dal porto, ci trovammo presto sulla 6th Avenue, dove il traffico era un flusso continuo di taxi gialli, autobus, uomini d’affari con il cappotto scuro e donne eleganti con il cappello. Da quel momento in poi, ogni angolo esplorato, ogni volto incontrato, ogni luce riflessa sulle vetrine di Broadway, sarebbe rimasto impresso come un sigillo di quell’America che fino ad allora avevamo solo immaginato. Ma la nostra prima tappa era stata già decisa.
Appena saputo della sosta di due giorni a New York, con alcuni colleghi avevamo pensato come riempire quelle preziose ore di libertà. Non si trattava solo di visitare una città, ma di vivere, anche solo per un breve momento, l’essenza stessa dell’America che avevamo visto al cinema, letto nei libri, sentito nei racconti di bordo.
La nostra piccola “crociera a terra” cominciò da Central Park, polmone verde nel cuore pulsante di Manhattan, dove l’autunno si mostrava nel suo splendore: tappeti di foglie rosse e oro, alberi svettanti dai rami spogli, e un silenzio irreale, quasi rispettoso, che sembrava separare il parco dal frastuono della città.
Lì, al margine occidentale del parco, ci attendeva il Tavern on the Green, un ristorante leggendario ricavato da un antico ovile per le pecore dello Sheep Meadow, che ormai da decenni accoglieva celebrità e viaggiatori con la sua atmosfera elegante e conviviale. La colazione fu per noi un piccolo rito: piatti semplici ma raffinati, serviti in un ambiente che riusciva ad essere al tempo stesso sontuoso e familiare. Sapevamo che per molti attori, personaggi noti, il posto era un luogo di rifugio e ispirazione. Per noi, marinai in transito, fu una parentesi di bellezza e di quiete prima di riprendere il lavoro a bordo.
Rinvigoriti, proseguimmo verso il Radio City Music Hall, dove avevamo prenotato i biglietti per uno spettacolo pomeridiano. Quel teatro, con i suoi interni dorati e l’architettura art déco, ci lasciò senza fiato. Gli interni dorati, le linee sinuose dell’architettura art déco, l’eco dei passi sul pavimento lucido… tutto contribuiva a creare un’atmosfera sospesa, quasi irreale. Sembrava di entrare in un tempio laico dedicato all’arte e al sogno.
Lo spettacolo in programma quel giorno era “A Funny Thing Happened on the Way to the Forum”, una commedia musicale che spaziava tra la farsa antica e il ritmo brillante del musical americano. A guidare la scena c’era un attore che in quegli anni era già un’icona di Broadway: Zero Mostel, istrionico e magnetico, capace di catalizzare l’attenzione del pubblico con una sola smorfia o un gesto esagerato. Le luci, i colori, le musiche coinvolgenti, le coreografie impeccabili: fu un’esplosione di vitalità che ci travolse dal primo all’ultimo minuto. Una rappresentazione che riusciva a essere leggera e raffinata, comica e intelligente, moderna eppure radicata in una tradizione antichissima. Conservo ancora la locandina di quello spettacolo, ripiegata con cura tra le pagine di un diario logoro, come si conserva qualcosa che ha lasciato un’impronta. Anni dopo, con una punta di stupore, mi capitò di rivedere quello stesso spettacolo trasmesso dalla televisione italiana. Ma nulla, ovviamente, poteva restituire l’emozione di quel pomeriggio vissuto a teatro, nel cuore di New York, in quel lontano autunno del 1963.
ll Metropole Café era il nostro ultimo approdo di quella giornata intensa e memorabile. Situato a pochi passi da Times Square, il locale era noto in tutta Manhattan come il tempio del jazz più autentico e travolgente. Dentro, l’aria era densa di fumo, suoni, risate e bicchieri tintinnanti. Il leggendario batterista Gene Krupa – sì, proprio lui – era di scena quella sera. La notizia ci colpì come un lampo di fortuna inaspettata: ci sedemmo a uno dei tavoli davanti al palco, ancora increduli. Il locale era affollato, vibrante, ma sembrava che la musica avesse il potere di isolare ciascuno nel proprio piccolo universo di emozioni.
Krupa, con il suo stile energico e inconfondibile, era il cuore pulsante del palco. Ogni colpo sulle pelli dei tamburi sembrava arrivare dal profondo del suo essere, trasformando la batteria in uno strumento narrativo, capace di raccontare storie. Ci guardò, ci sorrise con un cenno del capo, e poi, quasi per gioco o forse per intuizione, attaccò una versione jazzata e sorprendente di ’O sole mio. Era un omaggio inatteso, che ci commosse nel profondo. Quella melodia familiare, vestita dei colori caldi del jazz americano, danzava tra gli ottoni e i piatti con una grazia nuova, vibrante, improvvisata. Era come se Napoli e New York si fossero strette la mano, per qualche istante, su quel palco. Ci guardammo in silenzio, consapevoli che quel momento ci sarebbe rimasto dentro per sempre. Non era solo musica: era un ponte tra mondi, un segno di amicizia, forse di destino. Seduti lì, nel cuore ruggente di Manhattan, ci sentimmo stranamente a casa. E quando il brano si concluse, accompagnato da un applauso scrosciante, il nostro battito si confuse per un attimo con quello della città.
Stanchi ma felici, rientrammo a bordo nel cuore della notte, ancora storditi dal turbinio di immagini, suoni e sensazioni che quella città gigantesca ci aveva regalato. Era stato un giorno pieno, vibrante, difficile persino da raccontare, tanto era denso di suggestioni. Eppure, mentre il profilo illuminato di Manhattan si rifletteva sull’acqua scura del porto, avvertivamo già la nostalgia di ciò che avevamo appena vissuto.
Il mattino seguente, dopo il turno di servizio dalle 08:00 alle 12:00, approfittai del tempo libero per un altro piccolo viaggio nel cuore dell’America: decisi di raggiungere i miei parenti a Brooklyn sperimentando un intricato tragitto della subway newyorkese. Il quartiere mi accolse con un calore sincero, fatto di sorrisi, accenti familiari e profumo di caffè. Raccontai della mia prima esperienza nella grande mela, del Central Park dorato d’autunno, dello spettacolo a Radio City, della magia del Metropole Café e dell’incontro musicale con Gene Krupa.
In quel pomeriggio, inaspettatamente, conobbi altri procidani che vivevano in zona e che vollero incontrarmi. Fu un momento di grande intensità, quasi un ponte tra la mia vita in mare e le radici mai dimenticate della mia isola. Si parlò di Procida, delle famiglie, delle partenze, dei sogni lasciati alle spalle e di quelli ancora da inseguire. La lingua, le espressioni, gli sguardi: tutto mi riportava a casa, pur essendo a migliaia di chilometri di distanza.
A mezzanotte tornai a bordo, camminando lentamente tra i moli silenziosi, con l’animo colmo di immagini e riflessioni. Il giorno dopo, la M/N Italia avrebbe ripreso la rotta per Nassau, riprendendo il consueto ciclo di crociere tra New York e le Bahamas. Continuai quel servizio fino al 25 aprile 1964, giorno in cui sbarcai, portando con me un bagaglio di esperienze umane e professionali difficili da descrivere a parole.
Il giorno successivo, 26 aprile, partii dall’aeroporto internazionale di New York alla volta di Milano, a bordo di un volo intercontinentale — il mio primo. Un misto di trepidazione e meraviglia mi accompagnava lungo tutto il viaggio: non era solo l’attraversamento di un oceano, ma il passaggio simbolico da un tempo di scoperta a un nuovo capitolo della mia vita.
Il rientro nella mia isola fu, com’era prevedibile, carico di emozione. Riabbracciai i miei familiari tra sorrisi, racconti e silenzi che dicevano più di mille parole. Un anno di navigazione si chiudeva, lasciandomi addosso il senso pieno di ciò che significa partire e tornare. Ma, dentro di me, già sapevo che quel viaggio – e quella sosta d’autunno a New York – sarebbero rimasti per sempre impressi nel cuore, come una bussola intima e preziosa, da tenere stretta nel tempo.