Il 16 novembre 1960 lasciavo nuovamente Procida. L’autunno sull’isola era mite, velato di malinconia e promesse. Le foglie ingiallite danzavano tra i vicoli e un odore di mare e legna bruciata si mescolava all’aria del mattino. Salutare la famiglia, il porto, le case colorate della Marina, non era mai un gesto semplice, nemmeno per chi, come me, sapeva che il richiamo del mare è una condizione inevitabile. Ogni distacco era un filo che si spezzava e che, puntualmente, si sarebbe dovuto riallacciare. La piccola isola sembrava salutarmi con quella sua malinconia leggera di fine autunno, quando i colori si spengono e i venti si fanno più severi. Sapevo che sarei tornato, ma ogni volta che mi allontanavo sentivo quella stretta profonda che solo chi ha il mare nel sangue e un’isola nel cuore può comprendere.
Il viaggio verso la nave fu lungo, articolato, un rito ormai familiare. Procida–Napoli–poi il treno notturno per Genova, un passaggio obbligato prima di volare verso l’Oriente petrolifero. Da lì a Milano e poi Beirut, con quel fascino sospeso di una città che era ancora crocevia di viaggiatori e commercianti, punto d’incontro tra Europa e Levante. Infine Kuwait City, con i suoi venti caldi e il cielo impolverato, e poi di nuovo il deserto da attraversare, come nel viaggio precedente, per raggiungere Mina Saud. Lì, all’ancora, mi attendeva la Massachusetts Getty. Ma questa volta qualcosa era cambiato. La nave era la stessa, eppure io la vedevo con occhi diversi. Ero stato promosso terzo ufficiale, con patentino liberiano, e a bordo mi attendeva un incarico con maggiore responsabilità e autonomia. Un altro passo nel cammino professionale, che sentivo meritato e al tempo stesso impegnativo.
Il 26 novembre 1960 lasciammo Mina Saud per tracciare una nuova e lunga rotta, mai percorsa fino ad allora: destinazione la costa ovest degli Stati Uniti, San Francisco. Era il primo viaggio dall’altra parte del mondo, lungo il Golfo Persico, lo Stretto di Malacca, il Mare delle Filippine, fino a tuffarci nell’Oceano Pacifico, immenso e profondo, silenzioso e potente. Navigammo per oltre un mese, in un oceano che sembrava non finire mai, tra albe leggere e notti stellate, fino a quando, il 28 dicembre, davanti a noi si aprì la Baia di San Francisco.
L’ingresso nella baia fu una rivelazione. Le colline verdi e le case adagiate come in un dipinto, il ponte arancione sospeso tra cielo e mare, il movimento continuo di traghetti, rimorchiatori, pescherecci. Rimanemmo tre giorni in rada a San Francisco prima di cominciare a scaricare piccole quantità di carico in diversi terminali sparsi tra le cittadine che compongono la grande Baia: a Martinez, dal profilo industriale ma raccolta e viva; a Vallejo, porticciolo storico che sembrava uscito da un racconto dell’Ottocento. Ogni cittadina con la sua atmosfera, i suoi moli, le gru, gli odori forti del petrolio mescolati a quelli delle cucine di terra. Ogni terminale era una parentesi nuova, una sosta breve ma intensa.
A San Francisco salimmo fino a Twin Peaks per vedere la città dall’alto, ci perdemmo tra le salite e discese dei quartieri di Nob Hill e North Beach, entrammo nei negozi colorati di Chinatown, passeggiammo lungo le banchine di Fisherman’s Wharf, con il profumo del mare che si mescolava a quello del pesce fritto e del pane caldo. Lì, tra le strade affollate e i tram che risalivano le pendenze sferragliando, sentii davvero il respiro di una città che era simbolo di libertà e di incontro tra mondi lontani.
La notte di Capodanno fu speciale. La passammo in un locale del centro, insieme ad alcuni membri dell’equipaggio. La musica americana scorreva tra bicchieri tintinnanti e risate allegre. Brindammo al nuovo anno con la consapevolezza di vivere un momento unico. San Francisco ci aveva accolti con la sua dolce malinconia e la sua forza viva. Era il 31 dicembre 1960, e io mi sentivo in mezzo al mondo. Ripartimmo nei primi giorni di gennaio del 1961, lasciando alle spalle la Baia ancora avvolta da una leggera nebbia. Ma dentro di noi, ciascuno portava un frammento di quella città speciale, di quelle cittadine affacciate sul Pacifico, di quel pezzo d’America che avevamo appena cominciato a conoscere, con ancora negli occhi le luci della città e il riflesso del Golden Gate sul mare. Il nostro viaggio di ritorno verso Mina Saud non si rivelò una semplice traversata, ma un’avventura lunga e impegnativa, un vero banco di prova per ogni marinaio.
L’immensità del Pacifico si distese di nuovo davanti a noi, con la sua maestosità e i suoi umori mutevoli. Navigammo verso ovest, attraversando dapprima l’oceano profondo e uniforme, poi costeggiando tratti più turbolenti, tra le Filippine e l’arcipelago indonesiano. Attraversammo nuovamente il Mare delle Filippine, che in quel periodo ci offrì condizioni non sempre facili: mare grosso a tratti, venti incostanti, piogge improvvise. Ogni giorno era una sfida, ogni notte una vigilanza attenta.
Passammo lo Stretto di Malacca, dove il traffico marittimo intenso richiedeva massima attenzione. Navi mercantili, pescherecci locali, piccole imbarcazioni improvvise apparivano nei radar come punti mobili e imprevedibili. Quelle acque strette e ricche di insidie non concedevano distrazioni.
Quando finalmente ci apparve la costa arabica fu come rivedere un volto noto dopo una lunga assenza. Il Golfo Persico ci accolse con le sue acque più calme ma mai del tutto serene, sempre minacciate da venti sabbiosi e visibilità ridotta. Le insidie erano diverse, più subdole: secche, correnti sottostimate, scarsa segnalazione. Quel viaggio aveva rappresentato, per me e per molti di noi, un salto oltre la linea dell’orizzonte abituale. Avevamo conosciuto una nuova rotta, affrontato difficoltà imprevedibili, imparato ancora una volta ad ascoltare il mare e le sue mille voci.
Dopo il lungo viaggio che ci aveva portato fino alla California e il ritorno attraverso i mari del mondo, ritrovammo ancora una volta le acque calde e familiari di Mina Saud. Da lì, il solito carico e la rotta tracciata verso Delaware City. Vi giungemmo il 21 marzo 1961, sotto cieli plumbei e tra le consuete sagome industriali della raffineria. Non vi era tempo per lunghe soste: subito ripartimmo in direzione Suez, e quindi nuovamente verso Mina Saud dove ci giunse l’ordine che avrebbe mutato, seppur brevemente, il corso abituale delle nostre rotte: il carico era destinato a Gaeta. L’Italia tornava così nella nostra traiettoria, non più come eco lontana o pensiero nostalgico, ma come meta concreta. L’arrivo a Gaeta fu carico di emozione. La nave sostò lì sette giorni, e con sorpresa ci venne dato l’ordine di un un secondo viaggio per Gaeta stavolta da Bandar Mashur. In entrambe le due soste approfittai per tornare a casa, a Procida, anche se per pochi giorni. Sapevo che l’imbarco sarebbe stato ancora lungo e quindi quei momenti trascorsi tra le mura familiari, i volti cari e i profumi della mia isola, furono come una boccata d’aria antica, un sorso di radici.
Gaeta ci accolse con la sua aria sospesa tra storia e mare, i suoi bastioni borbonici, il profilo del Santuario della Montagna Spaccata, e quella placida quotidianità che sembrava ignorare le tensioni del mondo. Dopo la seconda sosta, la rotta ci portò a Palermo, che salutammo di nuovo e poi verso il Pireo, il grande porto di Atene, con una tappa breve ma intensa, dedicata ai lavori di garanzia della nave, svolti presso i cantieri Hellenic Shipyards. Visitammo Atene, la città sacra dell’antichità. Ricordo il cammino verso l’Acropoli, lo sguardo verso il Partenone e le colonne bianche che parevano custodire ancora le voci del tempo. I giardini pubblici, le strade intorno a Monastiraki, i volti greci e i negozi dal sapore mediterraneo componevano una tavolozza che aveva qualcosa della mia terra, ma con una luce diversa, antica e fiera.
Conclusi i lavori, lasciammo il Pireo con la prua rivolta nuovamente verso Ras Tanura. Da lì sarebbero iniziati i grandi viaggi verso il Giappone con prima destinazione Iwakuni, piccola città portuale avvolta dalla foschia primaverile e dal profumo di pini e sale. Seguì Kudamatsu, ordinata e discreta, dove il silenzio dei moli sembrava amplificare i pensieri. Ogni scalo era una breve sosta, poche ore per scaricare una piccola quantità di greggio, ma abbastanza per respirare un’aria diversa, per affacciarsi sul volto di un Giappone ancora legato alle sue tradizioni millenarie eppure già proteso al futuro. Poi toccò a Yokohama. Qui, per la prima volta, la modernità ci venne incontro con il suo passo rapido. Le luci del porto, il traffico incessante, i capannoni colmi di merci parlavano un linguaggio industriale e internazionale, ma bastava allontanarsi di pochi isolati per ritrovare la quiete dei templi, i giardini di ciliegi e l’educata compostezza della gente ed infine Kobe, in un susseguirsi di porti dove il lavoro era routine, ma la terra che ci accoglieva era sempre una scoperta.
Ogni approdo giapponese portava con sé un’impressione profonda. Il rispetto silenzioso dei portuali, la precisione quasi rituale delle operazioni, l’eleganza discreta di una cultura che sembrava vivere in simbiosi con l’oceano. Non c’era frenesia, ma un ritmo diverso, quasi meditativo, che ci avvolgeva e ci faceva riflettere su quanto il mondo potesse essere vasto e variegato.
E il Giappone, con i suoi contrasti e la sua compostezza, ci offriva molto più di quanto riuscivamo a restituire, ma la navigazione, per quanto scrupolosa e disciplinata, non è mai immune dagli imprevisti. Il 4 dicembre 1961 nella baia di Yokohama, una nave da carico ci speronò lateralmente causando un ampio squarcio sulla murata di dritta. Dopo le operazioni di scarico dirigemmo verso Nagasaki per i lavori di riparazione che durarono dal 9 al 16 dicembre 1961, presso il grande cantiere Mitsubishi Heavy Industries. La fortuna volle che nel momento della collisione, fossimo ancora carichi perchè se fossimo stati scarichi, un’esplosione sarebbe stata quasi inevitabile.
Nagasaki ci accolse con la sua atmosfera sospesa tra memoria e rinascita. Visitammo la città con animo rispettoso, colpiti dalla quiete dei suoi giardini in fiore, dalla cura dei suoi templi, dalla gentilezza discreta della sua gente. Entrammo nei negozi, curiosammo tra le botteghe colme di oggetti d’artigianato, ci perdemmo nei profumi e nei colori di quella quotidianità così diversa dalla nostra, eppure stranamente familiare.
Ma tra tutti i luoghi, uno in particolare ci lasciò un segno profondo: il monumento eretto nel punto esatto dove era caduta la bomba atomica. Una grande statua che domina il parco con la sua posa solenne: una mano alzata verso il cielo, a indicare da dove era giunta la distruzione; l’altra tesa orizzontalmente, a mostrare dove aveva colpito. Un simbolo potente e silenzioso che raccontava, senza parole, l’orrore e il dolore vissuti da quella città.

Ne acquistai una miniatura, una piccola replica della statua, che conservo ancora oggi. È più di un ricordo: è una reliquia laica, un segno personale di quel passaggio, di quel mondo così ferito eppure così straordinariamente vivo. Nagasaki non fu solo un luogo di sosta per riparazioni navali. Fu una lezione di storia e umanità, incisa nella memoria con la stessa forza con cui il mare incide le sue rotte nei cuori di chi lo solca.
Navigare tra l’America e il Giappone, tra Pacifico e Oriente, era un’esperienza che andava oltre il mestiere. Era una scoperta lenta, continua, fatta di silenzi, sguardi, incontri fugaci. E ogni viaggio rafforzava dentro di noi la consapevolezza che la vera rotta non era solo tracciata sulle carte, ma anche, e forse soprattutto, dentro di noi.
Da Singapore ci eravamo già passati più volte, ma sempre in transito, mai con una sosta vera e propria. Quella volta, invece, l’ordine di scaricare parte del carico rese possibile l’ormeggio. Fu una piacevole sorpresa. La città-stato ci accolse con il suo clima caldo e umido, un mosaico vivace di lingue, culture e odori esotici. Ricordo le strade pullulanti di vita, i mercati colorati, l’eleganza discreta dei giardini botanici e il contrasto continuo tra l’antico e il moderno. Singapore ci colpì con la sua energia silenziosa, la compostezza orientale e l’operosità che traspariva in ogni angolo. Anche solo per poche ore, riuscimmo a respirarne l’anima.
Dopo la sosta, proseguimmo verso Dumai, sulla costa orientale di Sumatra. Un porto secondario ma funzionale, immerso in una natura lussureggiante e selvaggia, quasi fuori dal tempo. Vi scaricammo un’altra porzione del nostro carico, in un’atmosfera che sembrava lontanissima dai grandi terminali del Golfo Persico.
Poi fu di nuovo il lungo tragitto verso le coste americane, stavolta con una variazione inattesa: una sosta a San Pedro, il porto di Los Angeles. Un mondo a parte rispetto a San Francisco, ma pur sempre uno squarcio di quell’America frenetica e tentacolare che ormai ci era diventata familiare. Lì tutto sembrava più veloce, più grande, più moderno. Ricordo la fila interminabile di container, le banchine operose, e sullo sfondo le insegne luminose che annunciavano una metropoli in perpetuo movimento.
Ancora una volta, puntammo verso le coste saudite e Mina Saud, convinti che la routine ci avrebbe ricondotto alle tratte abituali. E invece, la sorpresa: un ordine ci assegnava un viaggio per il Nord Europa, destinazione Kalundborg, in Danimarca.
Fu come tornare a un’altra epoca della navigazione, quasi un salto nel tempo e nelle latitudini. Lasciato il caldo torrido del Golfo, la rotta ci condusse attraverso il Mar Arabico, il Canale di Suez, il Mediterraneo, e poi lo Stretto di Gibilterra. Da lì cominciava l’Atlantico del Nord, e con esso il cambio repentino di clima, di luci, di odori. Il grigiore del cielo, le onde scure, il vento più teso. E soprattutto il traffico: navi mercantili, pescherecci, petroliere, traghetti in un continuo incrociarsi di rotte.
Il Mare del Nord, con la sua fama di insidie e tempeste, si mostrò fedele alla sua leggenda. Nebbie improvvise, corrente forte, scarsa visibilità. Era un continuo controllare il radar, calcolare rotte alternative, evitare collisioni in uno dei quadranti più affollati della navigazione commerciale. L’ingresso nel Kattegat e poi nel Grande Belt ci condusse infine a Kalundborg, piccolo porto danese incastonato tra boschi e acque fredde. L’atmosfera era silenziosa, ordinata, quasi irreale. Le case basse, i tetti spioventi, la luce lattiginosa del Nord ci fecero percepire quanto fossimo lontani dalle sabbie arabe o daIle banchine californiane.
Il viaggio da Kalundborg ad Augusta, ultima tratta del mio lungo imbarco sulla Massachusetts Getty, fu insieme una traversata di mari e un lento ritorno verso casa. Lasciata la quieta cittadina danese, adagiata lungo le rive del Mare del Nord con le sue case ordinate e il suo porto efficiente, affrontammo le rotte affollate e complesse del Canale della Manica e poi del Golfo di Biscaglia. Navigammo lungo la costa atlantica dell’Europa, passando lo stretto di Gibilterra, soglia tra due mondi, spartiacque tra oceano e Mediterraneo, tra avventura e nostalgia.
Fu un tratto intenso, segnato dal senso di fine e dal sapore dolceamaro degli ultimi giorni a bordo. Il Mediterraneo ci accolse con le sue luci più morbide, con le albe più familiari, mentre la prua piegava a oriente verso Augusta, porto siciliano e luogo dello sbarco. I turni di guardia si caricavano di pensieri, gli sguardi si facevano più lunghi sull’orizzonte, e ogni dettaglio – il colore del mare, il battito regolare dei motori, il fischio lontano di un’altra nave – sembrava voler imprimersi nella memoria, come a trattenere qualcosa che stava per svanire.
Arrivammo ad Augusta il 19 aprile 1962, e con lo sbarco si concluse un capitolo intenso della mia vita. Quel viaggio dal Nord Europa al cuore del Mediterraneo, passando per mari gelidi e coste assolate, fu l’ultimo abbraccio della Massashusetts Getty, la nave che aveva solcato con me l’oceano e il tempo, testimone silenziosa di una giovinezza trascorsa tra rotte lontane e mari infiniti.