Tornai a Procida con la mia prima esperienza di mare appena conclusa. Era il 14 marzo del 1958. Alle spalle lasciavo tre mesi intensi a bordo della M/N “Lucrino” e nel cuore portavo la consapevolezza che il mare non era più un sogno da accarezzare tra i banchi dell’istituto nautico, ma una realtà viva, aspra, esigente.
L’isola mi accolse con il suo abbraccio familiare. Le giornate si allungavano e l’estate sembrava avvicinarsi con passo lento ma inesorabile. In quei mesi di attesa sentivo crescere dentro di me un fremito di impazienza: il desiderio di ripartire, di tornare a bordo, di proseguire quel cammino che avevo appena iniziato.
Il 16 luglio 1958 arrivò la nuova opportunità con imbarco immediato sulla S/S”Tidewater”, una petroliera di bandiera liberiana di 21.393 tonnellate di stazza netta ,della Hemisphere Trasportation Corporation –in effetti della Getty Oil Company- ferma a La Spezia per cambio equipaggio. Ricordo una mattina luminosa quando salii per la prima volta sulla nave. Il nome rimbombava nei miei pensieri con un’eco straniera, quasi come un richiamo d’oltreoceano. La sagoma della nave, possente e affusolata, tagliava l’orizzonte del porto come una cattedrale d’acciaio. Salendo la passerella, avvertii subito che quella non era una nave come le altre. Era una superpetroliera, una delle punte di diamante dell’impero della Getty Oil Company. Un universo a sé stante, dove ogni valvola, ogni tubo, ogni corridoio sembrava rispondere a un ordine silenzioso e rigoroso.
Una nave imponente, moderna, gestita secondo criteri organizzativi ben diversi da quelli cui ero abituato. L’impatto fu forte. Non solo per la struttura della nave stessa e per la sua tecnologia, ma soprattutto per la mentalità. Tutto appariva più ordinato, più efficiente ,più rigido. Già salendo la passerella, sentii il profumo d’acciaio e nafta che presto sarebbe diventato parte di me. Ero di nuovo all’inizio. Ma questa volta con un po’ più di consapevolezza e meno ingenuità. A bordo trovai un equipaggio ben rodato, una routine serrata, una disciplina quasi militare. Non c’era tempo per incertezze: si imparava facendo, osservando, agendo. Era un mondo nuovo per me ed io, giovane ufficiale, iniziavo a comprendere cosa significasse davvero essere uomo di mare. Mi accorsi subito che a bordo, la vita seguiva ritmi ferrei. Nulla era lasciato al caso. I turni di guardia, la manutenzione, i controlli, ogni azione era scandita da regole precise, e la disciplina regnava sovrana. Ma non era una disciplina ostentata: era quella degli uomini che sanno di dover trasportare una materia viva, infiammabile, e che ogni errore può costare caro.
La nave lasciò la Spezia il 22 luglio1958 alla volta di Mina Saud, nel Kuwait, carica solo di tempo e attese, destinata a riempirsi del petrolio arabo che ci avrebbe spinti attraverso mezzo mondo. Passammo per lo Stretto di Messina, il cuore stretto tra due terre, e poi Port Said, un nome che sembrava già esotico solo a pronunciarlo, e che per noi significava l’ingresso nel cuore del mondo orientale. Da giovane navigante, affacciato sulla murata della nave, guardavo la città con la curiosità di chi scopre per la prima volta l’altra faccia del Mediterraneo. Port Said era polvere, voci, mercanti, odori forti di spezie. I venditori salivano a bordo con mercanzie improbabili, tappeti, cinture, pugnali da bazar. Tutto era un frastuono allegro e disordinato, ma negli occhi degli uomini c’era una fame antica. Capii, allora, che il prossimo passaggio del canale di Suez non sarebbe stato solo un passaggio d’acqua, ma una soglia tra due mondi: da un lato il vecchio continente, dall’altro un Oriente arabo e misterioso che cominciava lì, tra le lamiere rugginose dei moli e i canti dei marinai egiziani.
Il Canale di Suez si attraversava a velocità lenta, sotto la guida dei piloti egiziani, con gli ufficiali di guardia tesi, vigili. A sinistra e a dritta scorrevano paesaggi lunari: sabbia, palme, accampamenti, villaggi fatti di baracche e silenzio. Ma nei miei occhi di ventenne si fissava qualcosa di più profondo: il senso di stare attraversando non solo un canale, ma la storia stessa.
Col tempo, quelle immagini non si sono sbiadite. Anzi, sono diventate memoria viva, tanto che anni dopo, con la maturità e la distanza del tempo, ho sentito il bisogno di raccontarle in un articolo pubblicato su Destra.it il 1° luglio 2021, dal titolo:
“Passaggio verso le Indie e avamposto della memoria. Ricordi del Canale di Suez”.