
Il sondaggio ISPI–IPSOS DOXA 2025 su “Gli italiani e la politica internazionale” restituisce una fotografia nitida e, per certi versi, spietata dello stato d’animo del Paese. Non siamo di fronte a un’Italia ideologizzata o polarizzata, ma a una nazione stanca, disillusa, che osserva il mondo con crescente inquietudine e con la sensazione di non avere più veri punti di riferimento. È una percezione che nasce dall’esperienza concreta di questi anni: pandemia, guerra in Europa, conflitto permanente in Medio Oriente, crisi energetica, inflazione, instabilità politica globale. Tutto concorre a generare un sentimento diffuso di insicurezza.
Il dato di fondo è chiaro: per la maggioranza degli italiani il mondo è oggi più pericoloso, più instabile e meno governabile rispetto al passato. Ma ciò che colpisce davvero non è solo l’aumento delle paure, bensì il crollo delle certezze. I pilastri tradizionali della politica internazionale occidentale – Stati Uniti, NATO, Unione europea – non vengono più percepiti come un blocco compatto e coerente. L’idea stessa di “Occidente” appare incrinata, se non svuotata di significato politico concreto.
La novità più rilevante riguarda il rapporto con gli Stati Uniti. Per decenni, al di là delle differenze politiche interne, Washington è stata considerata un alleato solido, un riferimento strategico e, in ultima analisi, il garante dell’ordine internazionale. Oggi non è più così. Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca segna una frattura profonda nella percezione degli italiani. Gli Stati Uniti smettono di essere un alleato affidabile e diventano un partner ambiguo, imprevedibile, quasi estraneo.
Il crollo del saldo di fiducia nei confronti degli USA è impressionante e senza precedenti nel dopoguerra. È un dato che va letto con attenzione, perché non nasce da un antiamericanismo ideologico, ma da una valutazione politica concreta. Trump incarna un’America ripiegata su se stessa, poco interessata alla stabilità globale e molto più concentrata su rapporti di forza, transazioni e interessi immediati. Agli occhi degli italiani, questa America non rassicura più nessuno, nemmeno i suoi alleati storici.
Eppure, qui emerge un paradosso solo apparente. Donald Trump è giudicato negativamente dalla maggioranza degli italiani, sia per l’impatto sul mondo sia per quello sugli stessi Stati Uniti. Tuttavia, resta il leader politico percepito come più influente a livello globale. Questo scarto tra giudizio di valore e percezione del potere reale è uno degli elementi più interessanti del sondaggio. Gli italiani non apprezzano Trump, ma riconoscono che il mondo continua a ruotare intorno alle decisioni americane. È una forma di realismo politico diffuso, che separa la simpatia dalla forza.

C’è però un elemento che merita di essere chiarito, soprattutto per evitare letture superficiali o strumentali di questi dati. Chi scrive non osserva il rapporto tra Italia, Europa e Stati Uniti da una prospettiva astratta o ideologica. Tra il 1957 e il 1972 ho vissuto per lunghi periodi all’estero, navigando sulle petroliere e poi sulle navi da crociera, con base operativa a New York. Ho conosciuto l’America non dai libri o dalla propaganda, ma dalla vita quotidiana, dal lavoro, dalle relazioni sociali, dal confronto diretto con una società complessa, dinamica, contraddittoria ma straordinariamente vitale. Questa esperienza ha contribuito in modo decisivo alla mia formazione sociale e politica, rendendomi, senza esitazioni, filoamericano sul piano culturale e civile.
Il filoamericanismo, però, non è mai stato per me adesione acritica a una linea politica o a un leader. Al contrario, nasce proprio dalla conoscenza profonda di quel Paese e dalla distinzione netta tra l’America come civiltà e l’America come potere politico contingente. John F. Kennedy rappresentò, per una generazione intera, l’idea di una leadership capace di coniugare forza e responsabilità, visione globale e rispetto degli equilibri internazionali. Donald Trump incarna invece una fase diversa, segnata da unilateralismo, transazionalismo e disinteresse per l’ordine internazionale costruito nel dopoguerra.
È da questa posizione, dichiaratamente filoamericana ma non subordinata, che va letta la crescente diffidenza degli italiani verso gli Stati Uniti emersa dal sondaggio ISPI. Non si tratta di antiamericanismo, bensì della percezione che l’America di oggi non coincida più con l’America che garantiva stabilità, alleanze e prevedibilità. Una distinzione che molti italiani, anche senza aver vissuto direttamente quell’esperienza storica, sembrano intuire con sorprendente lucidità.
Accanto agli Stati Uniti, la Russia continua a occupare un posto centrale nell’immaginario delle minacce. Per il quarto anno consecutivo Mosca è indicata come il principale pericolo per la sicurezza globale. La guerra in Ucraina ha lasciato una traccia profonda e difficilmente reversibile. Anche qui, però, la lettura non è ideologica. La Russia non è vista come una minaccia astratta, ma come una potenza che ha dimostrato di essere disposta a usare la forza militare per ridefinire i confini europei. Questo basta, da solo, a giustificare la diffidenza.
Più interessante ancora è il mutamento della classifica delle minacce. Accanto alla Russia compaiono stabilmente gli Stati Uniti e Israele. È un segnale forte, che racconta molto più di quanto sembri. Gli italiani non accettano più automaticamente le scelte militari dei Paesi “amici”. L’idea che l’Occidente abbia sempre ragione, o che le sue guerre siano comunque giustificate, non convince più. È una frattura culturale prima ancora che politica.
In questo scenario, l’Unione europea emerge come il principale punto di riferimento per gli italiani. La fiducia nell’UE cresce e raggiunge livelli superiori rispetto al passato. Ma sarebbe un errore interpretare questo dato come entusiasmo europeista. Si tratta, piuttosto, di una fiducia di ripiego, quasi obbligata. L’Europa è vista come l’unico spazio politico ancora familiare, l’unico ambito in cui l’Italia può sentirsi protetta. Ma nessuno si illude sulla sua reale capacità di incidere nei grandi conflitti globali.
Questa ambivalenza è evidente quando si guarda alla gestione delle crisi internazionali. Sul Medio Oriente, ad esempio, gli italiani non attribuiscono all’Unione europea un ruolo significativo. Solo una minoranza crede che l’Europa possa garantire la pace nella regione. Prevale invece una preferenza per soluzioni multilaterali, sotto l’egida dell’ONU o di coalizioni internazionali più ampie. È una sfiducia che pesa come un macigno sull’idea stessa di “Europa geopolitica”, tanto evocata quanto mai realizzata.
Il desiderio di pace attraversa tutto il sondaggio come un filo rosso. È il dato emotivo e politico più forte. Gli italiani vogliono la fine delle guerre, prima ancora della crescita economica. La pace in Ucraina, in Medio Oriente, in Africa viene indicata come la principale fonte di speranza per il futuro. È il segno di una società esausta, che non sogna nuove egemonie né nuovi equilibri di potenza, ma semplicemente stabilità e prevedibilità.
Questo spiega anche l’atteggiamento verso il conflitto ucraino. Quasi la metà degli italiani vuole la fine immediata della guerra, anche a costo di compromessi territoriali. Una parte significativa sarebbe persino disposta a interrompere il sostegno militare occidentale. Solo una minoranza sostiene la prosecuzione del conflitto fino alla piena restituzione dei territori occupati. È una posizione che mette in difficoltà molte narrazioni ufficiali, ma che va compresa per quello che è: non una resa ideologica, bensì una scelta dettata dalla paura dell’escalation e dalla consapevolezza dei limiti.

Gli italiani non si percepiscono più come protagonisti della storia, ma come spettatori vulnerabili. Ed è proprio questa sensazione di marginalità a orientare le loro scelte. In un mondo dominato da grandi potenze aggressive e imprevedibili, la priorità diventa evitare il peggio, non inseguire il meglio.
Il sondaggio ISPI 2025 racconta dunque un’Italia meno ideologica e più disincantata. Un Paese che non crede più alle narrazioni salvifiche, che guarda con sospetto tanto alle potenze rivali quanto agli alleati tradizionali, e che affida le proprie speranze non a nuovi leader carismatici, ma a un ritorno, per quanto imperfetto, a un ordine internazionale regolato.
È una fotografia che dovrebbe far riflettere profondamente la classe politica. Perché dietro questi numeri c’è una domanda silenziosa ma potente: sicurezza, pace, stabilità. Non slogan, non avventure, non illusioni di potenza. Gli italiani chiedono di non essere trascinati in un mondo sempre più pericoloso senza avere voce in capitolo.
Ignorare questo segnale significherebbe aumentare ulteriormente la distanza tra politica e società. Ascoltarlo, invece, potrebbe essere il primo passo per ricostruire una visione nazionale della politica estera, finalmente ancorata alla realtà e agli interessi profondi del Paese.
E, per chi come me ha conosciuto l’America da vicino, lavorando e vivendo tra oceani e porti con New York come base, questa conclusione pesa ancora di più: proprio perché resto convintamente filoamericano sul piano culturale e civile, considero un dovere distinguere tra la grandezza di una nazione e l’incertezza della sua politica del momento, e ricordare che la vera amicizia tra popoli non è obbedienza, ma lucidità.
