Tra i tanti angusti passaggi che punteggiano le rotte del commercio mondiale, lo Stretto di Hormuz si impone per importanza e fragilità. A vederlo su una carta nautica, incuneato tra l’Oman e l’Iran, appare come un sottile imbuto tra le masse continentali, ma nella realtà è uno dei gangli vitali attraverso cui pulsa l’energia del pianeta. Oltre a rappresentare un punto strategico per l’economia, Hormuz è oggi una linea sottile tra pace e crisi, un passaggio che racchiude in sé l’equilibrio instabile della geopolitica marittima moderna.
Nel punto più stretto, le sue acque misurano appena 29 miglia nautiche, ma ogni giorno vi transita oltre un terzo del greggio trasportato via mare. Non è solo una rotta petrolifera, è una arteria vitale che collega i giganteschi giacimenti del Golfo Persico – Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti – ai mercati affamati di energia di Asia, Europa e oltre. La chiusura anche solo parziale di questo stretto significherebbe una crisi senza precedenti, perché – a differenza del Mar Rosso, per cui esistono rotte alternative – per Hormuz non ci sono scorciatoie, non ci sono vie d’uscita.
Chi, come me, ha solcato quelle acque negli anni ’60 a bordo delle petroliere della Getty Oil Company, ricorda un paesaggio brullo e silenzioso, quasi immobile sotto il peso del sole. Allora non si parlava di crisi geopolitiche, ma solo di rotte, correnti, carte nautiche e calcoli di marea. L’attenzione era tutta rivolta alla navigazione: evitare banchi di sabbia, seguire le segnalazioni luminose, mantenere il canale sicuro. I traffici non erano così intensi come oggi, eppure anche allora si percepiva l’importanza di quel passaggio. Navigare nello Stretto di Hormuz era come passare attraverso una serratura, un tratto breve e delicato, ma decisivo. Ci accompagnava un rispetto istintivo per quel lembo di mare: era come entrare in un luogo sacro della marineria mondiale.
Oggi, invece, Hormuz è diventato un simbolo della fragilità degli equilibri internazionali. Le minacce di Teheran di bloccare il traffico marittimo, le tensioni tra potenze regionali e la crescente militarizzazione dell’area trasformano questo stretto in un potenziale epicentro di crisi globale. La sua valenza non è solo commerciale ma eminentemente geopolitica: controllarlo significa esercitare una leva sul mercato energetico mondiale, sulle economie industrializzate, sulla sicurezza delle rotte marittime.
Nel linguaggio della geopolitica degli spazi marittimi, Hormuz rappresenta un, “punto di strozzatura” attraverso il quale si possono esercitare forme di potere silenziose ma decisive. I mari, del resto, non sono solo distese liquide da solcare: sono spazi strategici, teatri invisibili di rivalità, strumenti di pressione economica e diplomatica. L’Iran lo sa bene, e nel corso degli anni ha imparato ad agitare la minaccia di bloccare lo Stretto come arma di dissuasione, consapevole che anche una minaccia, se ben calibrata, può avere effetti reali sui mercati globali.
Eppure, chi ha attraversato quel passaggio prima che diventasse simbolo di instabilità, conserva l’immagine di un mare silenzioso, dominato solo dalle regole della navigazione. Ricordo notti di calma piatta, col cielo che si specchiava sull’acqua, e l’odore del carburante che aleggiava sulle coperte della nave. I problemi erano nautici, non politici. Lo Stretto ci imponeva attenzione, certo, ma non paura. Era un punto obbligato delle nostre rotte, ma non ancora carico delle tensioni che oggi lo circondano.
Lo Stretto di Hormuz è diventato, negli ultimi decenni,uno dei simboli del legame indissolubile tra economia, sicurezza e spazio marittimo. Chi controlla le sue acque può esercitare un’influenza profonda non solo sull’equilibrio regionale, ma sull’intera economia mondiale.
Tuttavia, nel mondo della geopolitica, anche le minacce inverosimili devono essere prese sul serio. La sola prospettiva di un’escalation militare che coinvolga direttamente lo Stretto di Hormuz è sufficiente a far tremare i mercati e a rimettere in discussione le strategie di approvvigionamento energetico a livello globale. E se la razionalità suggerisce che la chiusura del passaggio non conviene a nessuno, la storia insegna che i conflitti possono seguire percorsi imprevedibili, trascinando con sé anche le certezze più consolidate.
In un contesto internazionale sempre più instabile, lo Stretto di Hormuz resta un punto nevralgico, un “collo di bottiglia” energetico la cui sicurezza è fondamentale per la tenuta dei mercati globali. Monitorare gli sviluppi nell’area e mantenere aperti i canali diplomatici rimane l’unica strategia possibile per evitare che un focolaio locale diventi una crisi globale.