«Gettate la rete.Il lavoro umano è un segno dell’immensa fiducia con cui Dio ci avvolge di dignità». Con questo incipit il cardinale canadese e prefetto del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale Michele Czerny ha aperto il suo intervento in occasione del 21 novembre, giornata mondiale della pesca, richiamando l’attenzione del mondo sui pescatori, uomini la cui fede è «una ricchezza per la Chiesa che non si stanca di gettare le reti». E la pesca una ricchezza lo è davvero, e non soltanto per le sue infinite implicazioni spirituali.
In Italia soprattutto la pesca è un’attività tradizionale diffusa con solidissime basi storiche e culturali e nessuna analisi o indagine sulla blue economy e i suoi risvolti occupazionali può prescindere dallo studio accurato di questo ampio e variegato comparto del lavoro marittimo. Un settore tanto cruciale per l’universo marittimo da costituirne nei fatti la spina dorsale, e che indagato insieme alle risultanze strategiche industriali di tutta la filiera ittica si rivela a tutt’oggi una voce determinante dell’economia marittima e uno dei pilastri occupazionali del Paese.
Come argomentato in più occasioni il cluster marittimo italiano è uno dei traini principali dell’economia nazionale. Una realtà cruciale in grado di occupare quasi un milione di lavoratori: una forza lavoro pari a circa il 4 per cento di tutta la forza lavoro italiana e un impatto complessivo sull’intera economia nazionale pari a circa 143 miliardi di euro.
E tra i settori che, per fatturato e forza lavoro impiegata, incidono con forza nella blue economy italiana troviamo proprio la pesca con circa 12 mila imbarcazioni dedicate alla cattura di oltre 175 mila tonnellate di pesce all’anno. Un dato impressionante eppure in rapida e costante diminuzione, chiaro segnale di un comparto in piena crisi a dispetto delle misure assunte negli ultimi anni dall’Unione europea e dall’Italia per una ripresa del settore.
Al momento il comparto nazionale della pesca permette di censire poco meno di 33 mila posizioni di lavoro dirette, pari a circa il 21 per cento totale delle posizioni lavorative del settore marittimo. Un dato che rimane di indiscutibile rilievo tanto più se si tiene conto di quanto un singolo settore produttivo come la pesca produca a cascata un’infinità di effetti moltiplicativi ulteriori in una moltitudine di sottocomparti, cosa che rende impossibile determinare, pur con approssimazione, un computo verosimile dei posti di lavoro indiretti generati. E questo perché ogni indagine e ogni studio diventa un’impresa davanti all’impressionante vastità della filiera ittica, un mondo complesso e parcellizzato in mille rivoli, che spazia dall’attività di pesca in sé a bordo delle navi fino alla lavorazione del prodotto e alla commercializzazione del pescato.
Un settore, quello della pesca, purtroppo vittima da tempo di una crisi spietata e inesorabile a causa di mali atavici ma sempre più dirompenti: il grave impoverimento dei nostri mari e la conseguente diminuzione del pescato, una continua impennata dei costi di gestione, specie di quello del carburante, e una già indigesta burocrazia resa ancor più persecutoria da regolamenti della comunità europea troppo spesso vessatori, senza dimenticare i pesanti contraccolpi di provvedimenti, pur necessari, come il cosiddetto fermo biologico o le quote pesca.
Con un fardello simile sulle spalle è facile comprendere perché negli ultimi anni sia progressivamente diminuito il numero dei pescherecci, anche a causa degli incentivi alle demolizioni, e soprattutto il numero degli occupati diretti, oggi stimati in circa 28 mila unità, vale a dire 8 mila posti di lavoro in meno registrati negli ultimi 15 anni. Una forza lavoro, quella dei pescatori, che inesorabilmente con il tempo diventa sempre meno italiana con il crescente numero di lavoratori immigrati provenienti per lo più dall’Africa mediterranea, dal Ghana e soprattutto dal Senegal. Una forza lavoro, quella extracomunitaria, oggi impiegata a contratto sulle barche degli armatori medi e grandi del settore e, in misura crescente, anche nelle attività della piccola pesca.
La flotta italiana di pescherecci oggi conta un totale di poco più di 12 mila imbarcazioni di cui circa tremila di dimensioni maggiori ai 12 metri e circa novemila di piccolo cabotaggio: piccole unità di lunghezza compresa tra i sette e i 12 metri, che a dispetto del basso volume di pescato svolgono un ruolo cruciale nell’economia delle piccole comunità costiere generandone spesso la gran parte del reddito.
Resta invece una voce del comparto dalle potenzialità ancora inespresse quella dell’acquacoltura, un settore oggi costituito da una rete di circa 815 impianti per una produzione complessiva di 140 mila tonnellate di prodotti freschi e di qualità, pari a circa il 40 per cento della produzione ittica nazionale.
Le iniziative italiane a favore della pesca e della acquacultura sono delineate nel dettaglio in una delle sedici direttrici del Piano del mare per il triennio 2023-2025 approvato il 31 luglio 2013. Riferimento principale della pesca in Italia è la Politica Comune della Pesca sancita nel Regolamento UE 1380 del 2013 che disciplina la materia della pesca in un quadro di politica internazionale, di politica commerciale e di mercato e alla luce del sostegno finanziario assegnato al comparto con il Fondo europeo per gli affari marittimi a supporto di una corretta ed efficiente gestione della pesca,dell’acquacoltura e della trasformazione dei prodotti.Lungi dall’essere solo una questione di cattura e di mercato, infatti, come recita il Piano del mare la pesca è anche «ambiente, navigazione, controllo, cantieristica, portualità, lavoro, formazione, attività ricreativa e tanto altro». Per riportare la barra della questione pesca al centro dell’attenzione generale e puntare a un vero rilancio del comparto occorre ripartire dalle esigenze che esprimono le sue categorie, coinvolgendo sigle e associazioni della pesca nelle iniziative legislative del governo e del parlamento e, come più volte raccomandato su queste pagine, raccordandole in maniera armoniosa e il più possibile inclusiva. L’obiettivo è ambizioso ma alla nostra portata: recuperare il troppo terreno perduto in questi anni dall’Italia in un settore strategico e in un mercato in cui vogliamo, e possiamo, tornare a essere una realtà imprescindibile nella competizione globale.