Una grande autostrada tra Asia, Europa e Africa con una rete fittissima di snodi infrastrutturali, marittimi e terrestri. Un poderoso canale di collegamento articolato lungo una grande direttrice continentale tra la Cina e l’Europa del Nord e un’autostrada marittima, via Oceano Indiano, tra le coste del Dragone e il Mediterraneo.
Annunciato al mondo dal presidente Xi Jinping nel 2013, il progetto cinese della Via della Seta sembra aver perso in appena un decennio la gran parte del fulgore iniziale tra pandemia, guerra in Ucraina e il corollario di sanzioni inflitte dall’Occidente alla Russia, tanto che sempre più addetti ai lavori descrivono impietosamente lo stato delle cose sentenziando la “fine di un ciclo”. Una fine che in realtà non sembra convincere appieno, dal momento che le stime del Fondo monetario internazionale segnalano una crescita costante di Pechino nella misura del 4,5 per cento, pari a circa un terzo della crescita globale.
Lungi dall’essere una banale questione di cortile, il piano del gigante asiatico coinvolge nel concreto 70 Paesi, a cui non più tardi di due anni fa si sono aggiunte realtà importanti come Sudafrica e Brasile e un nutrito numero di paesi dell’Europa orientale e dell’Africa. Realtà tutt’altro che irrilevanti se si pensa che, tutte insieme, corrispondono al 65 per cento della popolazione mondiale e producono un valore pari al 40 per cento del prodotto interno del pianeta, per un investimento complessivo di oltre mille miliardi di dollari. Un investimento tanto imponente da spingere Pechino nel 2014 a lanciare il Silk Road Fund, un fondo per attrarre investimenti esteri a fronte dello sforzo finanziario cinese per fare fronte a un’operazione di portata rivoluzionaria sull’intera mappa dei flussi economici mondiali.
Presentata dal presidente cinese come “il simbolo della nuova globalizzazione”, la Via della seta ha il suo tratto distintivo nella portata rivoluzionaria delle sue implicazioni geopolitiche, a iniziare dallo stravolgimento dei rapporti di forza in ordine al controllo dei flussi commerciali e finanziari del pianeta. È evidente infatti che un successo conclamato delle nuove rotte imporrebbe all’attenzione del pianeta un nuovo duopolio di potere Cina – Usa a discapito degli altri competitori globali, in particolare Europa e India, con quest’ultima alle prese con l’unica alternativa oggi esistente alla Via della Seta, la cosiddetta Via del Cotone.
La sfida geopolitica del progetto cinese sta tutta qui, nel groviglio di potenzialità e di interessi contrapposti tra Occidente a guida Usa e Oriente cinese, un orizzonte dalle prospettive allettanti che fa gola a tantissimi, compresi i paesi sotto il tallone dello zio Sam. Paesi come l’Italia, unica nazione del G7 ad aver firmato nel 2019 (primo governo Conte) un Memorandum d’intesa con la Cina della validità di cinque anni con possibilità di revoca sino a tre mesi prima del via.
E quello della Via della seta è oggi uno dei dossier più delicati sulla scrivania di Giorgia Meloni e del suo governo, vincolati alla difficile scelta di quale segno imprimere alle relazioni con la Cina. Di sicuro tra qualche mese l’Italia non sottoscriverà il Memorandum of Understanding Italia – Cina che ci avrebbe visto coinvolti in questa partnership, e a questo proposito segnaliamo il recente articolo di Ercole Incalza pubblicato dal Quotidiano del Sud che da ampio rilievo alle precisazioni ondivaghe del ministro degli Esteri Antonio Tajani: «Qualsiasi nostra decisione sulla Via della Seta non pregiudicherà i rapporti con la Cina, anche se con l’accordo non abbiamo ottenuto grandi risultati però vogliamo andare avanti con rapporti commerciali». Parole che non sono piaciute affatto al ministro degli Esteri cinese il quale, come riportato nell’articolo d’Incalza, ha puntualizzato che grazie alla Via della seta «si sono prodotti risultati fruttuosi e negli ultimi cinque anni il volume dell’interscambio tra Cina e Italia è aumentato da 50 a 80 miliardi di dollari e le esportazioni dell’Italia verso la Cina sono cresciute di circa il 30 per cento». Dati sconfessati a stretto giro di posta dal nostro Istituto per il Commercio estero.
Sta di fatto che l’Italia dovrà decidere entro pochi mesi se confermare o meno l’accordo e dovrà farlo «in un contesto geopolitico estremamente complesso, in cui incide la nuova postura della Nato e dell’Unione Europea» come precisato in un recente articolo de “Il Riformista” a firma Lorenzo Vita, in cui si sottolinea altresì che «nel summit di Madrid del 2022 l’Alleanza atlantica ha vagliato il gigante asiatico per la prima volta come “una sfida” mentre a maggio di quest’anno l’Alto rappresentante UE per gli esteri e la sicurezza Borrell ha rivelato che l’Unione europea considera la Cina al contempo “un partner,un concorrente e un rivale sistemico”».
Facile quindi dedurre che lo stato dei rapporti tra Italia e Cina sia senza dubbi teso e vada oltre la miriade di implicazioni inscritte nelle due rotte interessate, continentale e oceanica. Il vero dato saliente sta a monte, e cioè nella rilevanza del trasporto marittimo sui rapporti di forza tra potenze e continenti: una rilevanza che si può evincere riflettendo sul fatto che proprio attraverso il mare si svolge oltre il 90 per cento del commercio mondiale. Per questo «non essere attori del progetto cinese ma solo spettatori è una scelta perdente» come suggella nella sua analisi Ercole Incalza evidenziando come al netto di ogni volontà «alcuni porti del Mediterraneo continueranno a essere sempre scali di diretto interesse cinese».
Un’evidenza che fa i conti con il ruolo insostituibile dei porti nella gestione dell’afflusso e del deflusso delle merci, e non è un caso che dei venti più importanti scali del pianeta ben 15 si trovino in Asia (in prima battuta il mastodontico porto di Shangai), dilatando nei fatti a dismisura il potere del Dragone nel controllo delle rotte principali del traffico mondiale delle merci. Piaccia o non piaccia all’Italia, che si firmi o meno il Memorandum o si scelga l’opzione di un rafforzamento delle relazioni commerciali, Via della Seta o no la realtà impone di continuare a fare affari con la Cina.