Un settore d’eccellenza, un fronte economico in costante ascesa, un’industria quanto mai vitale al servizio di un indotto smisurato e un drammatico e ignorato contraltare, quello della grave congiuntura in ambito occupazionale. Il comparto marittimo italiano ha dimostrato con convinzione negli ultimi anni di avere le risorse e il carattere per resistere ai morsi spietati della crisi economica e mostrare al resto del Paese la vitalità e il dinamismo che occorrono per realizzare nei fatti la tanto auspicata ripresa economica. Eppure, al netto dei dati più che lusinghieri e delle statistiche tutte di segno positivo, rimane sul tavolo delle priorità del comparto l’incapacità complessiva di trasformare la ripresa dell’economia del mare in un ragionevole incremento dell’occupazione.
Ricavare una stima esaustiva sulla totalità dei lavoratori imbarcati e quelli esclusi dal mercato del lavoro è un’impresa a oggi improba e in ogni caso irrealizzabile. Privi di un reale censimento dei lavoratori del settore, gli analisti che vogliano provare ad avvicinarsi al reale stato delle cose non hanno altre alternative che fare una somma approssimativa delle singole notizie della stampa di settore, affiancare e soppesare i comunicati e i resoconti periodici delle singole realtà specifiche, giustapporre stralci di analisi e studi dedicati per arrivare a una stima complessiva almeno plausibile.
Sulla scorta dei dati riportati nel precedente articolo di questa inchiesta, il dato che merita una riflessione approfondita su una indagine seria e accurata sull’occupazione nel comparto marittimo è senza dubbio quello sulla nazionalità dei lavoratori che trovano impiego a bordo delle navi di bandiera italiana. Una realtà, quella dell’impiego di personale extracomunitario a bordo delle nostre navi, che è la grande materia del contendere e il vero discrimine nel dibattito che da tempo impegna tutte le anime dell’universo marittimo. Un dibattito divenuto scontro aperto nel novembre di tre anni orsono quando l’armatore Vincenzo Onorato annunciò attraverso una lettera pubblica la sua uscita dalla Confitarma, motivando la sua decisione proprio con la denuncia della mancata difesa da parte della categoria armatoriale dell’italianità del personale di bordo. Un addio polemico generato dalle regole d’imbarco del personale impiegato sulle navi di bandiera italiana e dall’estensione degli sgravi fiscali previsti anche alle compagnie che imbarcano lavoratori marittimi extracomunitari: una pratica, questa che troppo spesso si traduce nell’impiego massiccio di personale non qualificato e sottopagato e comunque a un costo assai inferiore di quello di casa nostra.
Una contrapposizione che ha visto nel tempo schierati da una parte coloro che richiedono sostegni e incentivi per le compagnie marittime italiane a prescindere dalla nazionalità del personale di bordo e dall’altra chi chiede che a essere premiate con gli incentivi fiscali siano soltanto le compagnie che imbarcano personale italiano e comunitario. Il cardine su cui verte il conflitto è la legge 30 del 1998 “recante disposizioni urgenti per lo sviluppo del settore dei trasporti e l’incremento dell’occupazione”: il provvedimento che, di fatto, ha istituito il registro delle navi adibite alla navigazione internazionale in cui da allora vengono iscritte, previa autorizzazione del ministero dei Trasporti, le navi adibite esclusivamente a traffici commerciali internazionali. Una legge che ha significato per molti armatori la quasi totale defiscalizzazione della forza lavoro impiegata, con un pacchetto di detrazioni, sgravi e agevolazioni a cui gli armatori interessati non intendono in alcun modo rinunciare, agitando a ogni ipotesi di modifica del provvedimento lo spettro dell’esodo delle compagnie, e dei relativi posti di lavoro, verso lidi e regimi fiscali più convenienti, a cominciare dalla vicina Malta.
Come si vede chiunque abbia oggi il desiderio di comprendere le ragioni di ognuna delle parti si troverà davanti a due rappresentazioni della realtà e a due orizzonti in tutto e per tutto inconciliabili.
E dire che in tanti nel settore avevano accolto come il tanto auspicato segnale di svolta l’approvazione, nell’ottobre di due anni orsono, del decreto legislativo ribattezzato legge Cociancich: un provvedimento che prescrive l’imbarco dei soli marittimi italiani o comunitari sulle linee di cabotaggio nazionale, ma che è rimasta lettera morta.
In assenza di dati assoluti e studi inoppugnabili ciascuna delle due parti può dirsi convinta della bontà delle proprie ragioni, senza che a nessun interlocutore terzo sia dato uno strumento oggettivo per confutare inesattezze o imprecisioni di sorta.
Quel che appare certo è che, per una sincera difesa dell’italianità del personale di bordo sarebbe saggio da parte delle istituzioni e delle autorità, a qualsiasi livello, imporre una disciplina normativa orientata con convinzione a premiare la preparazione dei lavoratori imbarcati, individuando standard di formazione e di sicurezza al massimo grado. Del tutto dirimente sarebbe altresì l’individuazione di criteri per uniformare i contratti del personale di bordo, e le relative buste paga, indipendentemente dalla nazionalità del lavoratore: regole universali e condizioni contrattuali uguali per tutti sono infatti il miglior viatico per una flotta votata davvero all’eccellenza. Una flotta che abbia il coraggio di selezionare i suoi lavoratori, invece che con criteri di risparmio e di convenienza, con la più equa delle leggi: la meritocrazia.
Nicola Silenti
destra.it