Anni di annunci solenni e statistiche di settore, oceani d’inchiostro e articoli dedicati, resoconti ufficiali e convegni a profusione per trovarsi ogni volta al punto di partenza con le stesse domande irrisolte e gli stessi interrogativi di sempre. Ricavare dati certi e tirare le somme sullo stato della economia del mare in Italia è un’impresa a tutt’oggi irrisolta: uno stallo inaccettabile che determina la conseguenza frustrante di rendere impossibile a chiunque abbia a cuore i problemi del comparto di mettere in campo soluzioni effettive e proposte più o meno plausibili per un rilancio complessivo del lavoro in tutto l’universo marittimo. Un rilancio che non potrà mai essere realizzato davvero senza numeri ufficiali certi e indiscutibili, cifre e percentuali insindacabili su cui incentrare in modo costruttivo il dibattito di operatori e analisti alla ricerca di soluzioni e terapie capaci di rianimare un settore, quello del mare, legato a doppio filo con la storia e l’anima dell’Italia e anche per questo uno tra i più strategici dell’economia tricolore.
Caso unico nel panorama statistico nazionale, quello marittimo rappresenta oggi con tutta probabilità l’unico settore d’impiego del Paese non ancora compiutamente indagato e documentato. La conseguenza diretta di un tale deficit di informazioni è tanto ovvia quanto disarmante: chiunque abbia l’ardire di indagare i flussi e le tendenze del mercato del lavoro in ogni singolo settore del mare, individuando le aree e i trend su cui convogliare gli investimenti e viceversa quelli improduttivi in termini di ricadute occupazionali, puntando così a un vero piano di rilancio complessivo dell’occupazione, finisce col ritrovarsi davanti a un muro di indefinitezza. Un muro che si riesce a scalfire appena andando a scartabellare tra studi e pubblicazioni a sé stanti, spulciando, comparando e interpretando percentuali spesso discordanti, fonti diversificate e solo di rado unisone, studi commissionati da sigle autonome o associazioni di categoria, ciascuna con il proprio angolo visuale da anteporre su tutto o i propri interessi da mettere in risalto.
A ogni buon conto, pur con tutte le sopracitate difficoltà e imprecisioni del caso e mettendo sul piatto dell’analisi i dati offerti dagli studi più recenti, le ricerche condotte dalle voci più autorevoli e ascoltate del pianeta mare e i decenni del lavoro diretto di chi scrive per avvicinarsi il più possibile al reale stato delle cose in materia di occupazione marittima occorre partire, tra l’altro, dai riferimenti contenuti nelle pubblicazioni di autorità di settore come l’Unione delle camere di commercio Unioncamere, gli studi delle sigle sindacali di categoria, le relazioni periodiche di Confitarma oltre a documenti imprescindibili come i Rapporti sull’economia del mare della Federazione del Mare unitamente alla Fondazione Censis senza dimenticare gli studi fatti in precedenza e pubblicati nel volume ”Osservatorio sul mercato del lavoro marittimo“ presentato a Genova a ottobre del 2008 e ancora valido per alcuni aspetti, tenuto conto della difficoltà di quantificare il numero dei marittimi italiani per la mancanza di un censimento completo atteso che nelle matricole sono ancora compresi coloro che non navigano da anni.
Dallo studio comparato di questa congerie di fonti è quindi possibile desumere, pur con l’approssimazione cui si è detto innanzi, le cifre relative alla filiera dell’economia del mare il cui quadro definitorio include: movimentazione di merci e passeggeri, filiera ittica, industria delle estrazioni marine, attività sportive e ricreative, filiera della cantieristica, ricerca, regolamentazione e tutela ambientale e servizi di alloggio e ristorazione e che oggi impiega circa 900 mila lavoratori nella sua totalità pari a una quota del 3,5 per cento di tutta la forza lavoro italiana, per un giro d’affari prodotto che ammonta a oltre 45 miliardi di euro, circa il tre per cento del totale nazionale e un indotto generato così esteso da essere tuttora incalcolabile.
In un Paese come l’Italia, bagnato dal mare per circa l’82% dei suoi confini, la filiera dell’economia del mare come abbiamo visto costituisce una parte importante del proprio sistema produttivo. Compito di questa modesta inchiesta comprensiva di una serie di articoli è spostare il baricentro dai numeri dell’economia del mare all’elemento umano analizzando il mondo marittimo italiano riconducibile all’universo specifico della “Gente di mare” ossia la forza lavoro del mare per antonomasia suddivisa nelle tre categorie convenzionali.
Premesso che per “lavoro marittimo” si intende ogni attività lavorativa che si svolge in mare e a bordo di una imbarcazione e in quanto attività civile si divide in tre settori di attività e ,precisamente il settore dei trasporti, quello della pesca e quello del diporto. Partendo dal settore dei trasporti la prima analisi coinvolge la flotta mercantile italiana i cui dati disponibili relativi all’anno appena trascorso dicono che nel computo delle navi di oltre cento tonnellate di stazza lorda 247 sono quelle da carico liquido, 180 quelle da carico secco, 426 quelle miste e da passeggeri e 595 le unità per i servizi ausiliari, per un totale di poco meno di 1450 unità. Un numero che segnala una flessione dell’1,4 per cento rispetto alla fine dell’anno precedente, da ripartire tra le 669 navi oltre le mille tonnellate lorde e le 779 tra le 999 e le cento tonnellate lorde: navi con un tonnellaggio che per oltre il 93 per cento è di proprietà italiana con relativa iscrizione nel Registro internazionale italiano, mentre per il restante 6,6 per cento (pari a un milione di tonnellate di stazza lorda) sono unità iscritte nel Registro ordinario. A questo scenario è poi da aggiungere la crescente flotta controllata da interessi armatoriali italiani ma battente bandiera estera, in gran parte frutto dell’acquisizione negli ultimi anni da parte di players italiani di importanti società di navigazione estere.
Se confrontata ai valori della media mondiale, la flotta italiana segnala un certo ritardo nel rinnovamento delle unità, tuttavia, a fronte di una consistente riduzione degli investimenti registrata negli ultimi anni, dal 2014 al 2017 gli armatori italiani hanno ordinato ai cantieri nazionali ed esteri un totale di 144 unità per un valore di circa 18 miliardi di dollari. Numeri comunque ragguardevoli, che esaminati nel dettaglio spiegano almeno in parte il lieve incremento del commercio estero italiano, nel solo anno 2016 in ripresa di oltre il 4 per cento. Una ripresa che si deve in larga misura proprio al trasporto marittimo, se si pensa che oltre il 55 per cento delle merci importate ed esportate dall’Italia utilizza il trasporto via mare, a fronte del 30 per cento movimentato su strada e nemmeno il 5 per cento su rotaia. I posti di lavoro stimati sulle navi della suddetta flotta sotto il Registro Internazionale ammontano a circa 67.000,di cui 37.000 coperti da marittimi italiani o comunitari e 30.000 da personale extracomunitario. A questi 67.000 posti di lavoro vanno ad aggiungersi le ricadute occupazionali di terra secondo un rapporto stimato di uno a cinque :una rapporto in virtù del quale a cinque posti di lavoro a bordo corrisponde un posto di lavoro a terra in mansioni d’ufficio, servizi, riparazioni, forniture, registri e quanto’altro per una stima reale di oltre 8500 unità. Da questa stima è possibile pertanto quantificare gli occupati del settore che a fine 2017 erano in numero complessivo pari a 76.000 lavoratori. Numeri che svelano con forza i contorni di un mondo, quello di una parte del del cluster marittimo, che a dispetto della distrazione generale si rivela uno dei pilastri più saldi dell’eccellenza italiana, un orizzonte su cui puntare con decisione il timone del Paese.