IMMACOLATA

IMMACOLATA

L’arrivo dell’estate, a Procida, coincideva sempre con il trasferimento del signor Antonio nel settecentesco palazzo di famiglia, per godere dell’abituale villeggiatura.

Anche in quell’anno 1901 Immacolata, che del palazzo era fedele custode, si affaccendò per dare aria alle camere, rinfrescare la biancheria e portare a termine le indispensabili pulizie.

Ad attendere Antonio al porto di Procida, quella mattina di Luglio, c’erano i pochi notabili dell’isola, che lo accolsero con il rispetto dovuto al suo ruolo nella società e qualcuno perfino con affetto e confidenza, come il farmacista dell’isola, Vittorio, suo amico di vecchia data.

Dopo lo scambio di convenevoli, tutta la famiglia prese posto in una carrozzella per dirigersi verso il palazzo, mentre Antonio e Vittorio prendevano l’altra, dove nel frattempo era stato sistemato anche il bagaglio.

Al palazzo, li accolse Immacolata, come sempre, per il rito della consegna delle chiavi: le sarebbero state rimesse in mano dal signor Antonio solo a fine settembre, il giorno della partenza.

Un tacito cenno, un significativo abbassare di palpebre del padrone di casa nel momento in cui furono uno di fronte all’altro, cui lei rispose abbassando il capo.

Poi Immacolata ritornò a casa, dove la aspettavano i figli e la fedele cugina Emma, che immediatamente si informò – come faceva ogni volta – sui dettagli dell’abbigliamento della signora Matilde.

Immacolata soddisfece la curiosità frivola della cugina, con una dovizia di particolari che riguardavano anche gli altri ospiti. Così si consumò il resto del pomeriggio.

Man mano che si addensavano le ombre del crepuscolo, diventava più acuto il profumo dei gelsomini notturni che crescevano a fitti cespugli, intorno alla casa.

Immacolata trasalì, sentendo bussare alla porta: un tocco discreto.

Andò ad aprire e si trovò dinanzi la persona attesa.

Il signor Antonio entrò senza far rumore e salutò affettuosamente Immacolata. Lei, ricambiando silenziosamente il saluto, si mosse per precederlo fino alla porta della stanza in fondo. Aprì e si fece da parte.

Dentro era acceso un piccolo lume.

Tra la finestra e l’armadio c’era la vecchia culla, che Gennarino all’arrivo di Alberto aveva tirato fuori dalla cantina. Pulita e ridipinta, era stata sistemata nel solito angolo che l’aveva accolta le altre volte.

Il signor Antonio si accostò e osservò il bimbo. In quel momento il piccolo Alberto aprì gli occhi e parve fissarlo. Allora egli lo baciò sulla fronte e gli accarezzò le mani.

Immacolata si allontanò nel corridoio e lasciò che il visitatore si trattenesse ancora qualche tempo presso la culla, da solo.

Quando più tardi venne raggiunta in cucina, le parve di notare un tremito nelle labbra dell’ospite e, forse, un luccichio nei suoi occhi, seguito solo da un sommesso “grazie” nell’attimo in cui voltava le spalle per andarsene, furtivamente come era arrivato.

Ma qualcuno lo aveva visto e si precipitò da Immacolata.

− Allora, cosa ti ha detto?

− Ma niente, Emma… niente.

− Ma come, niente! − replicò la cugina delusa − E tu perché non hai insistito per sapere qualcosa?

− Non c’è niente da sapere. Alberto è mio figlio. Non mi deve interessare nient’altro che questo.

− E quando sarà grande, cosa gli dirai?

Un’ombra passò nello sguardo di Immacolata. Ebbe un breve gesto di sconforto, ma la voce rispose ferma:

− Gli farò vedere il suo certificato di nascita. Sarà lui a decidere se vorrà saperne di più.

Emma annuì, dispiaciuta di essersi mostrata indiscreta: − Santa notte, Immacolata! − e andò via.

Immacolata tornò accanto alla culla e là rimase ancora per qualche tempo, immersa nei pensieri.

Considerava le parole con le quali il signor Antonio, alla fine del maggio precedente, aveva accompagnato la consegna del bambino prima delle formalità per l’adozione: parole senz’ombra di spiegazione, che motivavano il gesto con la fiducia e si appellavano soltanto alla devozione ed alla discrezione.

Dovevano esserci senz’altro delle ragioni ulteriori che avevano motivato la consegna di quel neonato proprio nelle sue mani, perché fosse cresciuto proprio nella sua famiglia, pur con un cognome estraneo.

Immacolata era una contadina: poco sapeva dell’Annunziata, il brefotrofio di Napoli, ma qualcosa comunque era giunto alle sue orecchie.

Il più delle volte, i figli abbandonati all’Annunziata erano un peso economico per le povere madri, che magari dovevano anche lavorare. Altre volte, erano frutto di violenza, o frutto di un meretricio praticato per miseria. Ancora, i bambini erano abbandonati perché frutto di amori fuori del matrimonio, e vi era la necessità di tutelare l’onore della donna.

In tutti i casi, quello che premeva era evitare lo scandalo, tanto più grave quanto più ragguardevoli erano le persone coinvolte.

Il sentimento materno e paterno era spesse volte soffocato e incatenato dal timore della censura morale.

Di quale di queste tragedie era frutto Alberto?

Certamente non si trattava di un semplice “figlio di n.n.” di umili origini, anche se era stato registrato come tale.

La finezza della biancheria che lo avvolgeva quando le era stato consegnato; le premure che avevano circondato le formalità dell’adozione; lo stesso danaro che discretamente ma generosamente giungeva, destinato ad allevare Alberto se non nel lusso, almeno in una discreta agiatezza, confermavano Immacolata in quella convinzione.

Poi, quale ruolo aveva giocato il signor Antonio in quella faccenda? Era solo un intermediario o lo coinvolgeva nell’adozione un motivo più personale o familiare?

Pur propendendo per quest’ultima ipotesi, Immacolata non voleva ammetterla chiaramente neanche con sé stessa: ebbe un sussulto, ed esclamò:

− Basta con questi pensieri! Alberto è mio figlio: non voglio sapere altro!!

E per tutta la vita mantenne la promessa.

Il signor Antonio, negli anni successivi, non mancò di onorare il suo impegno di assistere economicamente la famiglia di Immacolata per il mantenimento del piccolo adottato: ogni estate si attendeva ormai una sua visita e lo si accoglieva con la solita discrezione.

Fu nell’estate del 1904 che lui stesso ruppe questa discrezione, chiedendo con naturalezza a Immacolata di condurre con sé il bambino, in una delle occasioni che la portavano a palazzo per qualcuna delle sue incombenze.

Capitò proprio un giorno che in casa c’era il farmacista Vittorio, andato a rendere visita al suo caro amico Antonio.

In disparte e a testa bassa, Immacolata non poté cogliere granché dei loro discorsi, mentre sorridevano, accarezzavano il piccolo Alberto e gli offrivano dei dolciumi da dividere coi suoi fratelli.

Fu abbastanza certa, invece, di aver colto – tra le frasi pronunciate dai due – la parola “somiglianza”, ripetuta più volte.

Antonio aveva dunque confidato qualcosa al suo amico Vittorio?

Più in là nel tempo, capitò un altro episodio che per Immacolata suonò come una conferma ulteriore delle sue supposizioni.

Aveva sette anni compiuti Alberto, in quella domenica di settembre.

All’uscita dalla chiesa di Sant’Antonio Abate, la domenica ci si incontrava un po’ tutti.

Quel giorno, tanti si avvicinavano al signor Antonio e alla sua famiglia per salutarli: la partenza con la nave “Principessa Mafalda” alla volta di Napoli, era ormai prossima.

Quando la signora Matilde e gli altri si avviarono in carrozzella verso il palazzo, Antonio si trattenne ancora di fronte alla farmacia, poco distante dal sagrato, a scambiare qualche parola con Vittorio e con il parroco – che li aveva raggiunti – sulla tremenda siccità che quell’anno aveva colpito le campagne.

Vittorio puntualizzava il suo parere e Antonio annuiva convinto.

C’era con loro anche una signora che Immacolata conosceva: la maestra di Alberto.

Vedendola allontanarsi dal sagrato in compagnia di Emma e dei bambini, questa la chiamò, facendole cenno di avvicinarsi.

Accogliendo calorosamente il suo alunno, la donna a voce alta si complimentò con Immacolata per quel figlio che già dimostrava perspicacia e capacità intellettiva.

Confusa da quelle lodi, Immacolata chinò il capo ringraziando, ma riuscì a cogliere, con la coda dell’occhio, uno sguardo d’intesa ed un sorriso orgoglioso, scambiati tra Vittorio ed il signor Antonio, che potevano significare soltanto una conferma del sospetto che Immacolata aveva sempre serbato nel cuore.

Il farmacista, che tempo prima aveva parlato di somiglianza, dunque non si riferiva solo ad una somiglianza fisica. Aveva forse notato nel bambino – fin da allora- altri tratti che lo accomunavano a qualcuno di sua stretta conoscenza?

Pareva di si. Ed ora ribadiva la sua constatazione, alla luce delle osservazioni della maestra.

Quello sguardo d’intesa e quel sorriso orgoglioso, scambiati quel giorno sotto i suoi occhi, confermarono definitivamente a Immacolata che Alberto, pur condividendo la sorte dei suoi fratelli, proveniva da una casata di riguardo ,molto probabilmente,quanto quella dello stesso signor Antonio.

Nicola Silenti

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