Chiunque abbia trascorso una parte della propria vita sul mare – piccola o grande che sia – sa bene quanto ogni luogo veduto, ogni scalo vissuto, lasci nell’animo un segno, un ricordo che non sfiorisce. È una nostalgia particolare, che non ferisce ma accompagna, come un vento lieve che soffia sulla memoria. Una voce che richiama i giorni di bordo, le scie spumeggianti e i cieli mutevoli, le rotte incise nei diari e nei cuori, i volti compagni e i silenzi condivisi in mezzo all’oceano solcando le vie d’acqua che da secoli hanno unito e separato i continenti su rotte millenarie percorse da mercanti, esploratori, flotte e marinai, quelle stesse rotte che formano la turbolenta cronaca della storia umana.
Ero giovane allora, ma già consapevole di partecipare, a mio modo, a un flusso antico, scritto con la spuma delle onde e l’audacia dei marinai. Ogni viaggio era una scoperta, ogni attraversamento una lezione. Ricordo ancora l’emozione di fronte alle Colonne d’Ercole, alle porte solenni del Canale di Suez, ai passaggi strategici e suggestivi di Hormuz, Bab el-Mandeb, Malacca. Nomi che oggi evocano tensioni geopolitiche, ma che allora erano semplicemente i luoghi del nostro navigare quotidiano.
A quel tempo, le “High Risk Areas” non esistevano ancora. Navigavamo ignari dei futuri acronimi e delle definizioni strategiche che l’epoca avrebbe coniato per descrivere ciò che noi conoscevamo con i sensi: l’incertezza del passaggio, la maestosità dello scenario, il valore del tempo. Il rischio era compagno silenzioso, mai del tutto temuto né esorcizzato, parte integrante del mestiere. Eppure, oggi quegli stessi luoghi sono diventati simboli fragili dell’equilibrio globale, riflessi vulnerabili della nostra economia mondiale, bersagli di crisi e teatro di rivalità planetarie.
Allora non conoscevamo la parola “geopolitica”. O, se qualcuno l’aveva già incontrata nei libri, non la si associava al nostro mondo di scafi e carte nautiche. Era, per noi marittimi, un concetto estraneo, accademico, distaccato. Eppure, proprio il mare, che copre il 71% del pianeta, è la materia viva della geopolitica. Gli oceani, i mari, i canali, gli stretti: tutti spazi fluidi che da sempre accolgono conflitti, potere, strategie.
Solo molto tempo dopo, sfogliando appunti e rileggendo i ricordi, mi accorsi di aver attraversato inconsapevolmente il cuore stesso di quella che oggi si chiama “geopolitica marittima”. Uno snodo di forze, di interessi e di destini. Il geografo svedese Rudolf Kjellen già nel 1899 ne aveva intuito il significato, seguito poi dal tedesco Ratzel e dall’inglese Mackinder. Furono loro a costruire la cornice teorica di ciò che oggi appare ovvio. In Italia, anche se per poco, la geopolitica ebbe spazio nella “Rassegna mensile di geografia politica, economica, sociale e coloniale” (1939–1942), grazie a Giuseppe Bottai. Poi il silenzio.
Soltanto negli anni Novanta, e in particolare grazie alla rivista Limesfondata da Lucio Caracciolo, la geopolitica tornò a imporsi come chiave di lettura dell’attualità. Una parola “di moda”, la definisce lui stesso. Eppure, dietro questa moda c’è una realtà concreta: quella dei conflitti di potere negli spazi e nei tempi determinati. E gli spazi marittimi sono oggi – più di ieri – il campo di battaglia principale.
Non stupisce allora che il Mediterraneo, il nostro antico Mare nostrum, sia oggi letto come un “Medioceano”, cioè come un punto centrale di collegamento tra le grandi sezioni dell’Oceano mondo. Lì dove si incontrano le rotte, si scontrano le visioni.
Ancor più nuova, ai miei occhi, è la definizione di “Indo-Pacifico”, che oggi occupa pagine e strategie dei grandi poteri mondiali. Quando attraversavo lo stretto di Malacca, al largo di Singapore, tra le luci delle petroliere e il profilo orientale dell’arcipelago malese, non avrei mai immaginato che quel passaggio sarebbe stato ribattezzato “corridoio dell’Indo-Pacifico”. Né che una sigla come Q.U.A.D. – che oggi indica il dialogo strategico tra Stati Uniti, Giappone, Australia e India – sarebbe diventata un perno del contenimento della Cina in quell’area. Eppure è così. Il mondo cambia, le rotte restano, ma le parole che le descrivono mutano insieme alle logiche del potere.
E forse è proprio questo il senso ultimo del navigare: non solo muoversi attraverso le onde, ma osservare il cambiamento, raccoglierne i segni, interpretarne le tracce. Ogni stretto attraversato, ogni porto toccato, ogni scalo che ha lasciato nel cuore la nostalgia della partenza, oggi diventa una tessera di un mosaico più grande.
E forse anche per questo, rileggere oggi i miei appunti di bordo, rileggere ciò che un tempo pareva solo cronaca di viaggio, assume un valore diverso. Ogni traversata, ogni costa lontana, ogni passaggio da Oriente a Occidente è diventato – a distanza di anni – una pagina della storia del mondo. Una storia che allora ignoravamo di scrivere. Ma che oggi, guardando indietro, vediamo emergere con chiarezza dal flusso della memoria.
Quando leggo oggi dei progetti italiani nell’Indo-Pacifico, non posso fare a meno di rivedere me stesso giovane ufficiale su quelle stesse rotte. Allora non parlavamo di “cerchi della politica estera” né di strategie globali: per noi c’erano il mare, le navi, gli scali lontani e il lavoro che riempiva le giornate. Eppure, ogni volta che attraversavo lo stretto di Malacca o mi affacciavo sui porti del Golfo Persico, sentivo che quei luoghi avevano un peso particolare, come se custodissero un segreto destinato a rivelarsi negli anni a venire.
Oggi scopro che quelle acque sono diventate nodi centrali della geopolitica mondiale, spazi di competizione e di alleanze, e che anche l’Italia vi cerca il proprio posto. È un impegno che porta prestigio ma anche rischi, una scommessa che richiede equilibrio tra il Mediterraneo, che resta la nostra urgenza più vicina, e l’Indo-Pacifico, che rappresenta il futuro.
Per me, invece, resta soprattutto la memoria di quelle traversate: il silenzio delle notti oceaniche, il traffico delle petroliere, le soste nei porti stranieri e gli incontri fugaci con genti lontane. Ricordi che oggi si intrecciano con la riflessione geopolitica, quasi a ricordarmi che il mare non è solo spazio fisico, ma anche memoria, esperienza, destino.
E allora mi accorgo che la vera continuità non sta nei programmi politici, ma nelle rotte stesse: quelle rotte che ho solcato da giovane e che oggi tornano a imporsi come linee decisive della storia del mondo. Rotte che restano immutate mentre tutto intorno cambia, fedeli testimoni di un insegnamento antico: la storia la scriviamo noi uomini, ma è il mare a conservarne la traccia.