Leggere l’articolo di Massimo Weilbacher su Destra.it – ironico, corrosivo, tragicamente lucido – mi ha provocato un misto di amara indignazione e malinconico déjà vu. Ancora una volta, in Italia, la cultura viene umiliata dalla politica. Ancora una volta, un artista viene giudicato non per ciò che fa sul palco, ma per ciò che rappresenta – o si presume rappresenti – sul piano delle convenienze ideologiche.
Valerij Gergiev, uno dei più grandi direttori d’orchestra viventi, con un curriculum che da solo basterebbe a mettere in soggezione chiunque abbia messo piede in un conservatorio, avrebbe dovuto dirigere un concerto alla Reggia di Caserta. In programma, niente meno che Verdi, Čajkovskij e Ravel. Un trionfo annunciato. Ma no, il concerto è stato cancellato. Non per motivi tecnici, non per problemi organizzativi. Cancellato per motivi politici.
A bloccare tutto, una voce dal palazzo: l’onorevole Pina Picierno, europarlamentare del PD, intervenuta in nome di una presunta moralità pubblica, disturbata dalla presenza del direttore russo. Inaccettabile – a suo dire – far suonare un maestro che, in passato, non ha preso le distanze da Putin. Come se la bacchetta di un direttore d’orchestra fosse un’estensione della diplomazia internazionale. Come se la musica potesse, o dovesse, essere passata al vaglio dei verbali parlamentari.
Ora, voglio essere chiaro: non è in discussione la libertà di opinione. La signora Picierno ha tutto il diritto di esprimere dissenso. Ma impedire che un concerto si tenga, perché non si gradisce la nazionalità o le opinioni del direttore, è un atto che non esito a definire censorio. E, cosa ancor più grave, è un segno di arroganza culturale. Un modo per dire che la musica, in Italia, può esistere solo se conforme, solo se addomesticata.
Questa vicenda è emblematica della deriva che viviamo da anni: una cultura sempre più usata come strumento identitario, e sempre meno intesa come bene universale. Gergiev ha diretto nei teatri più importanti del mondo: Salisburgo, Vienna, New York, Tokyo. Nessuno si è sognato di sbattergli la porta in faccia in nome di un atto di patriottismo da salotto. Solo da noi si riesce nell’impresa di trasformare una sinfonia in una dichiarazione di guerra.
E poi, diciamolo, c’è anche la beffa. La mediocrità di chi oggi pontifica su ciò che è giusto o sbagliato in campo artistico stride con la grandezza di chi si vorrebbe cacciare. Weilbacher lo dice con sarcasmo chirurgico: la carriera culturale della signora Picierno si riduce a una tesi di laurea sul linguaggio di Ciriaco De Mita. Nulla di male, per carità, ma si fa fatica a immaginarla come autorità critica in grado di decidere chi può o non può dirigere Verdi e Čajkovskij.
Tutto questo accade in un Paese che si riempie la bocca di cultura, ma che – nei fatti – la teme. La teme perché la vera cultura è libera, imprevedibile, non si fa addomesticare né omologare. E allora meglio zittirla, meglio chiudere il sipario, meglio lasciare il podio vuoto.
Ma quel podio vuoto dice più di mille comizi. È il simbolo di un’Italia che, per paura di offendere, finisce col censurare. Che, per non assumersi responsabilità, preferisce eliminare il problema. Che, per inseguire una rispettabilità di facciata, tradisce lo spirito stesso dell’arte.
Eppure, la musica ha una forza che va oltre le interdizioni. Gergiev tornerà a dirigere, altrove, dove ancora si distingue un artista da un ambasciatore. E noi, qui, resteremo con il nostro provincialismo indignato e i nostri silenzi pieni di ipocrisia.
La verità è che ci siamo abituati al rumore della politica e abbiamo smesso di ascoltare il suono più importante: quello della libertà. E della bellezza. Il maestro Gergiev non ha potuto dirigere. Ma il silenzio che ha lasciato dietro di sé è una sinfonia che ci riguarda tutti.