La chiave di tutto è il mare. Per apprezzare appieno i grandi mutamenti nei rapporti di forza tra nazioni, determinare il peso dei continenti e intuire in quale direzione procede il mondo occorre puntare gli occhi sui traffici delle merci su container e sulle rotte marittime su cui le merci si muovono. Da dove salpano e dove approdano, gli snodi strategici e quelli in declino e nondimeno le aree “a rischio” soggette ad azioni militari o di pirateria in cui il flusso globale delle merci può rallentarsi o finanche interrompersi.
Il fattore cruciale per la redazione di ogni seria analisi della materia è una vera conoscenza delle rotte ma soprattutto l’esperienza, spesso più puntuale ed esaustiva di ogni studio statistico e di qualsivoglia scienza economica. Un’esperienza che è patrimonio della storia personale e professionale di chi come scrive ha navigato sui mari “caldi” del pianeta a partire dagli anni ’60, testimone privilegiato di sconvolgimenti epocali, ascese e cadute di imperi e rivoluzioni tecnologiche sino ad allora inconcepibili e impensabili. Anni in cui le “High risk areas” (Zone ad alto rischio) marittime non erano ancora state istituite, eppure risaltavano al massimo dell’evidenza sulle carte dei navigatori internazionali, ben consapevoli delle trappole e dei rischi annidati, alla stregua delle sirene di Ulisse, in quei passaggi obbligati. Stretti, rotte e punti nodali a rischio elevatissimo che nell’attuale contesto storico internazionale sono a tutti gli effetti i capisaldi della geopolitica del mare: una parola, la “geopolitica”, rimasta sconosciuta all’universo marittimo almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso nonostante la breve e lungimirante parentesi conosciuta da questa disciplina in Italia dal 1939 al 1942 con la rivista “Rassegna mensile di geografia politica, economica, sociale e coloniale” di Giuseppe Bottai.
Come ben rilevato di recente nello studio di un profondo conoscitore del mercato dello shipping come Jérôme de Ricqlès, per mappare oggi in modo attendibile i punti caldi delle rotte marittime planetarie e stilare una mappa dei rischi occorre partire dallo snodo che comprende gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo e il Mar Nero, pesantemente interessati dalla guerra russo ucraina con un tragico corollario di attacchi missilistici e bombardamenti sui porti di Odessa e Sebastopoli e il rischio stringente di un’escalation dagli esiti imprevedibili. Analoga allerta rossa è attribuita dal de Ricqlès all’area del Golfo di Guinea, interessata da diverso tempo da una serie ininterrotta di attacchi di pirateria sulla costa e in acque internazionali, e alla porzione di Estremo Oriente compreso tra l’isola di Taiwan e il Mare cinese, imprigionato da decenni nell’irrisolta disputa sulla sovranità dell’isola e la miriade di implicazioni geopolitiche che covano sotto una cenere che diventa ogni giorno sempre più incandescente.
Altro snodo ad alto coefficiente di pericolo è il Golfo di Aden, transito obbligato tra il Mar Rosso e il Canale di Suez, una zona a fortissima instabilità stretta nella morsa ferale dei conflitti in Yemen e Somalia, quest’ultima epicentro mondiale della pirateria. Minacciata dai cambiamenti climatici è invece la navigazione in inverno nell’oceano Atlantico e nel Pacifico, mentre il Canale di Suez si conferma uno snodo a rischio per le navi portacontainer di grandi dimensioni, esposte al pericolo ancora troppo frequente di collisioni. Rischi in tutto simili a quelli che interessano lo Stretto di Malacca, transito obbligato per le unità portacontainer in viaggio tra oriente e occidente attraverso Singapore: un transito che equivale a oltre un terzo del traffico merci mondiale e proprio per questo interessato sempre più di frequente da incidenti dovuti a collisioni ed episodi crescenti di pirateria. Zone a minore coefficiente di rischio ma ugualmente sotto la lente d’ingrandimento sono poi in Europa l’area del Solent, quella antistante il porto inglese di Southampton, esposta a venti forti e correnti pericolose che riducono la manovrabilità delle navi impegnate nel trasporto container, mentre dall’altra parte dell’Atlantico sono motivo di preoccupazione per gli addetti ai lavori le coste a nord del Brasile, afflitte anch’esse dal “male”della pirateria.
Ultimo per indice di pericolosità ma di certo tutt’altro che secondario sulle rotte dei traffici mondiali è infine il Canale di Panama, soggetto a sporadici sinistri gravi ma interessato dall’estate di quest’anno dal fenomeno della siccità, che ha ridotto il transito delle navi e potrebbe prolungarsi per almeno un altro anno solare. Il capriccio di un clima che spesso è il vero motore della storia, una storia che non sempre è il prodotto esclusivo delle scelte di noi uomini.