Alla faccia degli europeisti duri e puri, dei paladini del libero mercato e dei campioni della cooperazione europea, con tanti saluti alla sbandierata solidarietà tra componenti dell’Unione. Il messaggio che scaturisce dalla vicenda Stx – Fincantieri è che la difesa degli interessi nazionali è una bestemmia soltanto in Italia, sempre che a queste latitudini davvero esista ancora qualcuno capace di pensare a qualcosa che si avvicini al concetto. Un concetto alla base della decisione del governo transalpino di nazionalizzare i cantieri navali della Stx France a poche ore dalla scadenza del termine ultimo per la Francia per esercitare il diritto di prelazione sull’azienda: un’azienda la cui maggioranza era stata aggiudicata all’asta all’italiana Fincantieri e della quale Parigi detiene ancora un terzo del capitale.
Una decisione che il ministro dell’economia Bruno Le Maire ha motivato con la volontà di «difendere gli interessi strategici della Francia», garantendo che le competenze dei cantieri navali e i loro lavoratori rimangano in Francia. Una scelta che ha scatenato le proteste dei ministri italiani dell’Economia Padoan e dello Sviluppo economico Calenda, capaci a mò di ritorsione di scrivere addirittura una nota congiunta per lamentare la mancanza di fiducia e di rispetto reciproco da parte dei cugini d’Oltralpe. Risultato: un enorme, gigantesco buco nell’acqua.
Lo smacco impartito dall’establishment francese al nostro ceto politico è chiaro e fortissimo, e proviene da un paese in cui fa tutt’altro che ribrezzo ragionare in termini di nazione, di stato sovrano e di interesse nazionale, con una classe politica di centro, destra o sinistra che antepone alle logiche di schieramento anzitutto l’interesse dei propri cittadini. Cittadini che prima di essere socialisti, gollisti o sostenitori di “En marche”, il nuovo movimento costituito da Emmanuel Macron e premiato dai consensi sino alla conquista dell’Eliseo, non si vergognano di sentirsi anzitutto francesi. Sarà tutt’altro che un caso, pertanto, che le grandi aziende dalle parti di Parigi restino saldamente di proprietà francese mentre gli asset strategici italiani, che si tratti di telecomunicazioni, di industria manifatturiera, di alimentari o della grande distribuzione siano in mani straniere, e magari, ironia della sorte, proprio francesi. Una corrente di pensiero, la nostra, che sin dai primi anni novanta condensiamo nel termine “privatizzazioni”, e in ragione della quale l’Italia è stata spogliata di quasi tutto il patrimonio pubblico senza che si sia capito bene a che pro, mentre non ci sono dubbi a pro di chi.
Fatto sta che, sia che si tratti davvero di un colpo di teatro della presidenza francese per risalire il recente crollo nel gradimento interno, sia che si tratti di un novello anelito di “grandeur”, la Francia tira dritta per la sua strada. E ovunque al di là delle Alpi, in Germania come in Olanda, in Polonia come in Austria, fuori e dentro l’aula del Parlamento europeo, ciascuno pensa bellamente ai fatti propri. Ovunque tranne che in Italia, dove il primo che si azzardi a reclamare un briciolo di attenzione in più per chi è nato dentro questi confini finisce di solito marchiato a fuoco come xenofobo, razzista o populista. Un paese, l’Italia, dove persino uno attento ai più lievi cambi di umore dell’elettorato come Matteo Renzi non ha provato remora alcuna nell’affermare che «ciò che sta facendo Macron era previsto e prevedibile: sta facendo l’interesse del suo paese». A ben vedere un coraggioso atto di franchezza, come a dire agli italiani di rivolgersi altrove per trovare qualcuno che si occupi dell’interesse nostro.
Di certo, a conti fatti non sfugge a nessuno la vera differenza, il vero spartiacque tra la Francia e l’Italia: i loro politici salvano le aziende, i nostri le banche.
Nicola Silenti
destra.it