ALBERTO
Immacolata posò con ogni cautela sulla panca del corridoio la voluminosa cesta.
Aveva il respiro leggero e frequente, lo sguardo sfuggente ed una espressione indecifrabile.
Come soprappensiero, fissava la fuga di mattonelle bianche e ardesia e ogni tanto, con le dita della mano destra, allontanava dal viso una ciocca di capelli sfuggita ai pettini dell’acconciatura, tentando di fermarla dietro l’orecchio.
I quattro figli, in silenzio, levavano su quel viso rannuvolato quattro paia d’occhi pieni di curiosità.
Quando finalmente lei mostrò di voler intercettare quello sguardo, il più grande fece un passo avanti.
Gennarino: quattordici anni, sorriso mite, operosità precoce e sguardo di chi sente già con responsabilità il ruolo di primogenito.
Non disse nulla, ma Immacolata capì che era arrivato il momento di rivelare la faccenda inusitata che le era capitata quel giorno di maggio.
Scosse il capo, schiuse le labbra, ma all’improvviso si accorse di non trovare nel suo linguaggio di contadina, le parole adatte per raccontare ai suoi figli quella storia.
Là accanto, l’aloe del corridoio aveva germogliato un virgulto nuovo: sarebbe toccato separarlo dalla pianta madre, lasciar rimarginare la ferita al buio, anche per una settimana. Poi trapiantarlo.
Ma per farlo occorreva aspettare i mesi propizi dell’estate: non era giusto separarli troppo presto. Non era giusto.
Era stata lunga quella giornata.
In realtà era cominciata dalla sera precedente quando il postino – ritirata e smistata la posta portata dalla nave giornaliera – aveva bussato alla porta di Immacolata per consegnarle la lettera.
Tutte le inquietudini del mondo erano racchiuse in quelle poche, perentorie righe. Avevano aggredito Immacolata alla prima lettura, le avevano tolto l’appetito alla seconda e avevano continuato ad assillarla mentre, rigirandosi nel letto, ricordava le frasi ormai a memoria, nel buio.
La notte trascorreva ed i rintocchi, provenienti dal campanile della vicina chiesa di Sant’Antonio Abate, scandivano una dopo l’altra ore insonni.
Al rintocco delle cinque – l’alba era ancora lontana – si alzò, si preparò mettendo una cura particolare nel sistemare i pettini dell’acconciatura, e si concesse una frugale colazione.
I quattro figli dormivano ancora. Nella camera, dove si infilò scostando appena la porta, c’era un tepore piacevole.
Baciò lievemente le testoline arruffate, uscì, si avvolse nello scialle, prese la borsa e si avviò a passo svelto verso la scala interna della casa, che conduceva nel piccolo appartamento dove dormivano le tre cugine.
Emma era già sveglia e sentì subito il tocco lieve di Immacolata.
− Ti raccomando Gennarino e i bambini − le bisbigliò Immacolata, quando venne ad aprire. Non era la prima volta che le faceva quella raccomandazione: già la sera prima aveva cercato di spiegarle, di confidarle parte delle sue inquietudini, senza riuscire a comunicarle altro che una sorta di confusione, legata come si sentiva dalla precisa richiesta di discrezione che le veniva rivolta nella lettera.
Ma Emma non desiderava sapere nulla più di ciò che le era stato detto: annuì quieta, sbadigliò, stropicciandosi gli occhi, poi si chinò a baciare la cugina sulla guancia.
Immacolata si diresse verso l’uscita dalla parte della cantina: era buio pesto, ma lei conosceva a memoria il percorso e con gli anni si era scoperta una sensibilità felina, che le permetteva di intuire gli ostacoli nel tragitto.
Quando uscì all’aperto, l’alba era ormai un chiarore diffuso e terso. Man mano che il sole saliva, si faceva più acuto il profumo delle zagare e dei gelsomini.
Il cinguettio degli uccelli era l’unico rumore al quale altri, lievi, si aggiunsero man mano che si avvicinava alla strada principale che dirigeva verso il porto.
Percorso l’angusto tratto di strada che rasentava il muro della chiesa, la brezza mattutina la accolse con l’intenso profumo della cascata di glicini che scorse per un attimo, poi perdette, alle sue spalle.
Il porto era laggiù, davanti a lei.
− Che fai per strada a quest’ora?
Francesco, l’amico d’infanzia – quasi un fratello, come può esserlo solo un altro cristiano che nasce in un isola, come te – l’apostrofò dall’alto della sua carretta.
Aveva il volto solcato da rughe, Francesco. Era una vita che faceva avanti e indietro per consegnare il carico alle navi in partenza e prenderne da quelle in arrivo.
− Devo prendere la nave. Devo andare a Napoli…
− A Napoli? Cosa capita? E sali, dai… ti ci porto, ché tanto – lo sai – vado nella direzione tua…
Quando staccò il piede dalla strada a Immacolata parve di stare spiccando un salto nell’ignoto.
Laggiù, alla fonda, in attesa della lancia che le portava i passeggeri ed il carico, stava la nave: Immacolata non l’aveva mai presa in vita sua.
In quel 30 maggio del 1901, il porto di Procida era affollato.
Erano in procinto di essere imbarcati per Napoli non solo dei passeggeri, ma anche la migliore produzione di limoni e carciofi, insieme ad altre merci che Francesco – ed altri che facevano il suo mestiere – andavano ammassando nella zona di carico della banchina. Intorno a Immacolata c’era un via vai continuo di gente indaffarata e frettolosa.
Dopo breve tempo Immacolata, sbrigata la formalità del biglietto tra il profumo dei limoni e della salsedine, si imbarcò sulla lancia che faceva la spola tra la banchina e la nave Posillipo della Società Napoletana di Navigazione.
Otto lire era costato il biglietto di andata e ritorno: li aveva spesi dalle 50 lire trovate nella busta che le era stata recapitata.
Si accomodò su una poltrona del salone di prima classe e durante il viaggio, tra una posta del rosario e l’ennesima lettura della lettera con la quale – senza un accenno di spiegazione – le veniva chiesto di andare a Napoli, trovò maniera anche di osservare il panorama così nuovo per lei, che non aveva mai lasciato l’isola.
Mentre la nave accostava al porto, osservò stupita e meravigliata: la città le si mostrava in tutta la sua grandezza. Sbarcata, rimase immobile sulla banchina senza saper che fare finché non udì il suo nome, pronunciato da una voce nota. Voltandosi vide Giuseppe, segretario personale del signor Antonio, che le veniva incontro: l’avrebbe condotta in carrozza alla sua meta.
Arrivata al palazzo, venne immediatamente ricevuta nello studio del signor Antonio, che la accolse affettuosamente, le domandò del viaggio e si informò di come andavano le cose nell’isola.
Dopo queste formalità il signor Antonio si fece più serio.
Ora mi dirà, pensò Immacolata con sollievo.
− Un bambino? – esclamò Immacolata trasecolando.
Il signor Antonio annuì:
− Si, Immacolata. La nostra amicizia, la conoscenza della tua persona e della tua famiglia, la fiducia che tutti riponiamo in te, i valori in cui credi… ci hanno convinto a chiederti di adottare questo bambino.
− Ma come farò a mantenerlo?
− Non devi preoccuparti, si provvederà a fornirti tutto il necessario per crescere il bambino. Venendo incontro, se necessario, alle ulteriori necessità della tua famiglia.
Immacolata chinò il capo, la fronte distesa dalle rassicurazioni appena ricevute.
− Va bene… − bisbigliò.
Ad un cenno del signor Antonio, fu portata una cesta, adorna di pizzi come per un battesimo, da cui si levava un lieve vagito.
Da una poltrona, che rimaneva discosta e in ombra, si alzò un signore che fu presentato a Immacolata come Direttore del Brefotrofio dell’Annunziata di Napoli. Fu lui a consegnarla materialmente nelle sue mani, anche se il signor Antonio, premuroso, le assicurò che la sera, nel viaggio di ritorno, sarebbe stata accompagnata da una persona di servizio del palazzo, per aiuto.
In attesa dell’ora dell’imbarco, Immacolata consumò insieme alla servitù un pasto frugale e, di tanto in tanto, rilesse il documento relativo alla nascita del bambino, che le era stato consegnato con la richiesta di custodirlo per lui.
Durante il viaggio di ritorno, Immacolata non fece che pensare alla maniera giusta per raccontare ai figli, dando le opportune spiegazioni, ciò che era accaduto. La sua più fervida speranza era che, nonostante la giovanissima età, avrebbero capito.
Arrivata a casa, Immacolata poso con cautela la voluminosa cesta e scostò leggermente la minuscola coltre di mussola e pizzi: le quattro testoline si chinarono con un unico moto sincronico verso la cesta.
− Com’è bello! − esclamò Gennarino. L’annuire di Margherita fu istantaneo quasi fossero il gesto e la parola di un’unica persona.
Antonio si fece largo coi gomiti, cercando di guadagnare un posto da cui osservare meglio, allungando poi le mani verso il groviglio di pizzi.
− Non svegliarmelo, attento a te!
La voce della sorella Rosa, benché fosse appena un cinguettio di bimba, ebbe il potere di bloccarlo. Suonava pregna dell’autorità di ogni donna, che pare fatta dalla natura adatta ad avere istinti di madre prima d’aver coscienza d’essere donna, prima d’esser madre, e già fin dalla culla.
Immacolata fece un passo indietro, ingoiando la commozione.
Tre dita della mano sinistra, premevano le labbra tremanti.
Lasciava ai suoi figli la felicità di quella novità sorprendente. Ma lei no, non era felice.
Sentiva anzi arderle nel cuore un dolore lacerante, che non le apparteneva.
Ebbe, rapido, il presagio che le sarebbe toccato per tutta la vita esserne custode.
Perché solo così, solo così sarebbe davvero stata una buona madre per quella creatura.
− Figli miei, delle persone che ci conoscono hanno voluto affidarci questo bambino perché cresca nella nostra famiglia. E’ nato il 3 maggio, quindi ha solo 27 giorni. Ha visto la luce in una casa di Napoli, in un posto che si chiama Piedigrotta. E’ stato portato poi all’Annunziata, dove è rimasto fino a stamattina, quando mi è stato consegnato.
Più parlava e più i figli si stringevano intorno alla cesta. Gennarino e Antonio annuivano. Margherita guardava la madre mentre Rosa non staccava i suoi piccoli occhi dal bambino che, placido, dormiva.
Gennarino esclamò all’improvviso: – Come si chiama?
− Questo vostro nuovo fratello ha un cognome diverso dal nostro, ma questo non significa niente: sarà sempre mio figlio e vostro fratello. Si chiama Alberto Silenti.
Alberto visse felice in quella nuova famiglia. Crescendo dimostrò ampiamente che proveniva da un mondo diverso.
Ma questa è un’altra storia.
Nicola Silenti