Arriva sempre all’ultimo momento, come un colpo di vento improvviso, la decisione che cambia le carte in tavola. Stavolta è toccato ai pescatori, che dopo settimane di sosta forzata si preparavano a tornare in mare e a riaccendere i motori delle loro barche. Un decreto ministeriale, firmato in extremis mercoledì sera e approvato dopo l’ennesimo passaggio obbligato con Bruxelles, ha invece prorogato il fermo pesca fino al 30 novembre, coinvolgendo anche la pesca con palangaro, gli attrezzi da posta e persino quella sportiva.
Una misura che ha colto molti di sorpresa, soprattutto in Sardegna, dove gli equipaggi avevano già investito tempo e denaro per ripartire. Eppure, anche in questa vicenda complessa e dolorosa si intravedono i segni di un risveglio: cresce la consapevolezza che la pesca italiana non può continuare a vivere nell’incertezza e nell’attesa, e che il mare non è un settore residuale ma una risorsa strategica per l’intero Paese.
Dietro la rabbia dei pescatori e la delusione degli armatori si nasconde un desiderio di riscatto. Perché chi vive di mare non si arrende facilmente. Sa aspettare, ma anche ricominciare. E oggi più che mai, in un contesto economico dominato da regole e vincoli europei spesso calati dall’alto, è necessario che l’Italia torni a programmare con coraggio, difendendo i propri interessi e valorizzando le proprie specificità territoriali.
Le storture dell’attuale sistema sono evidenti: un plafond unico di giornate di pesca, uguale per tutti, che favorisce le flotte più grandi e penalizza quelle locali, come le barche sarde, costrette spesso a restare a terra per le condizioni meteo e le dimensioni ridotte. Ma proprio da questa consapevolezza può nascere il cambiamento. La proposta avanzata dalle associazioni di categoria – di suddividere le giornate di pesca su base regionale, tenendo conto delle caratteristiche delle flotte e del maltempo è un primo passo nella direzione giusta: una gestione più equa, più aderente alla realtà, più italiana.
Il mare non ha bisogno di decreti improvvisi, ma di una visione. Serve una politica che metta al centro la programmazione, la conoscenza diretta dei territori e il dialogo continuo con chi vive ogni giorno sul ponte di un peschereccio. Serve soprattutto la certezza dei tempi nei pagamenti dei fermi pesca, perché non si può chiedere a chi lavora di farsi banca dello Stato.
La buona notizia è che qualcosa si muove. Sempre più amministrazioni locali e associazioni di categoria stanno chiedendo con forza una revisione delle regole e un maggiore margine di autonomia nazionale nelle decisioni che riguardano la pesca. L’obiettivo non è uscire dall’Europa, ma far valere la voce dell’Italia dentro l’Europa, con proposte concrete e competenze tecniche che il nostro Paese possiede e può far pesare.
Nonostante tutto, la filiera del mare resta viva: i pescatori continuano a investire, i mercati ittici resistono, i ristoratori scelgono – quando possibile – prodotto locale e stagionale. Il mare, pur ferito, conserva la sua energia antica e la sua capacità di rigenerarsi. È da lì che bisogna ripartire: da una cultura del mare che non si limiti alla pesca, ma abbracci tutela, sostenibilità, ricerca e formazione delle nuove generazioni.
L’Italia ha tutto per farcela: coste, competenze, tradizioni e, soprattutto, una comunità di lavoratori che non ha mai smesso di credere nel valore del proprio mestiere. Se le istituzioni sapranno ascoltare e programmare con lungimiranza, il mare tornerà a essere non un problema da gestire, ma un patrimonio da valorizzare.
Il decreto che oggi ferma le barche può e deve diventare l’occasione per ripensare un intero sistema. Perché i pescatori non chiedono privilegi, ma rispetto e regole chiare. E perché il futuro del Paese – in fondo – si misura anche nella capacità di tornare a governare il proprio mare, con equilibrio, dignità e fiducia.
Il vento potrà cambiare, ma il mare non si arrende. E con esso, non si arrenderanno nemmeno gli italiani che dal mare traggono il loro lavoro, la loro identità e la loro speranza.
