Tre anni fa, con l’articolo pubblicato su queste pagine “La geopolitica degli spazi marittimi per leggere e comprendere il mondo”, riflettevo sul ruolo del mare come chiave interpretativa della politica globale. Da allora, il panorama internazionale è cambiato, ma il mare — come spazio di potere, di scambio e di confronto — è rimasto il vero baricentro del sistema mondiale. Oggi ,nel 2025,quella riflessione torna più attuale che mai.
In un mondo che cambia sotto la pressione delle crisi economiche, energetiche e ambientali, il mare torna a imporsi come il principale spazio geopolitico del pianeta. Gli oceani, da sempre vie di comunicazione e di scambio, sono oggi molto più che superfici liquide: sono campi di battaglia strategici, infrastrutture vitali e architravi dell’economia mondiale. Chi controlla il mare, ieri come oggi, controlla il mondo. Il mare non è solo un confine o una via di transito: è una rete di potere invisibile, fatta di rotte, porti, risorse, cavi sottomarini, condotte energetiche e infrastrutture logistiche che sostengono la globalizzazione. Su questa immensa scacchiera si muovono le grandi potenze del XXI secolo — Stati Uniti, Cina, Russia, India, Turchia — e con esse i nuovi protagonisti dell’Africa, del Sud-Est asiatico e del Golfo Persico. Tutte, in modi diversi, cercano di proiettare la propria influenza sugli spazi marittimi per assicurarsi sicurezza, energia, approvvigionamenti e, soprattutto, centralità politica.
Il 90% del commercio mondiale viaggia via mare. Le petroliere, le navi portacontainer, i cavi in fibra ottica, le pipeline sottomarine costituiscono l’apparato circolatorio dell’economia globale. Ogni giorno migliaia di unità attraversano stretti e canali — Hormuz, Bab el-Mandeb, Suez, Malacca, Panama, Gibilterra — dove si intrecciano gli interessi di intere nazioni. Sono punti di strozzatura geopolitica, attraverso i quali passano le fortune e le paure del mondo.
La crescente competizione tra potenze rende questi passaggi sempre più vulnerabili. Il Mar Cinese Meridionale è divenuto un teatro di tensioni permanenti, con la Cina che costruisce isole artificiali e basi militari per controllare le rotte verso l’Oceano Indiano. Lo Stretto di Hormuz, da cui transita un quinto del petrolio mondiale, resta uno dei punti più sensibili del pianeta, esposto a crisi e ritorsioni. Nel Mar Nero, la guerra russo-ucraina ha riportato la geografia al centro della storia, ridisegnando le priorità della sicurezza europea. E mentre tutto questo accade, la rotta artica — un tempo solo una suggestione cartografica — diventa una nuova autostrada marittima, grazie allo scioglimento dei ghiacci e all’apertura di spazi ricchi di idrocarburi e minerali.
In questo scenario, la geopolitica degli oceani non è più una materia da accademici o da ammiragli: è la chiave per comprendere le dinamiche concrete del potere globale. Chi controlla il mare assicura la continuità dei traffici, la difesa delle risorse, la proiezione della propria forza militare e, soprattutto, la capacità di influenzare il destino altrui.
La geopolitica marittima moderna non si misura più soltanto in flotte e tonnellaggi, ma nella capacità di costruire reti infrastrutturali integrate. La Cina, con la sua “Belt and Road Initiative”, ha compreso meglio di chiunque altro che il dominio del mare passa oggi dai porti, dai terminali, dalle catene logistiche e dai cavi sottomarini. Dal Pireo a Gibuti, da Gwadar a Hambantota, Pechino ha costruito una rete di presenze che le consente di proiettare influenza ben oltre i suoi confini. Una strategia economica, ma anche politica e militare.
Gli Stati Uniti, che per un secolo hanno dominato gli oceani grazie alla loro potenza navale e alla sicurezza delle rotte, stanno cercando di adattarsi a questa nuova realtà, consolidando alleanze nel Pacifico, rafforzando la NATO e rilanciando la cooperazione con il Giappone, l’Australia e l’India. La Russia, nonostante le difficoltà economiche, punta sull’Artico e sul Mar Nero, mentre la Turchia ambisce a un ruolo regionale da potenza marittima nel Mediterraneo e nel Mar Egeo. Nel frattempo, l’India rafforza la sua presenza nell’Oceano Indiano, proiettandosi come contrappeso naturale all’espansione cinese. Il risultato è un mondo multipolare in cui il mare è il grande regolatore dei rapporti di forza, un’arena dove l’economia e la strategia si confondono e dove la sicurezza marittima diventa sinonimo di sicurezza nazionale.
In questo quadro globale, il Mediterraneo continua ad essere un microcosmo di tutte le tensioni planetarie. Da sempre cerniera fra Oriente e Occidente, oggi è attraversato da rotte commerciali, migrazioni, flussi energetici e competizioni politiche che ne fanno uno spazio cruciale e fragile al tempo stesso. Gli interessi di Europa, Africa e Medio Oriente si scontrano e si intrecciano in un mare chiuso dove ogni crisi — dalla Libia alla Siria, dal conflitto israelo-palestinese alle tensioni nel Mar Egeo — produce effetti immediati sugli equilibri regionali.
Per l’Italia, il Mediterraneo rappresenta più di una frontiera geografica: è la misura della sua identità strategica. Senza una visione marittima, l’Italia perde il suo ruolo naturale di ponte tra Nord e Sud, Est e Ovest. La nostra posizione — protesa nel cuore del mare di mezzo, tra Suez e Gibilterra — è un vantaggio che pochi Paesi possiedono, ma che da troppo tempo non riusciamo a trasformare in potere geopolitico. Dalla portualità alla sicurezza energetica, dalla cantieristica alla logistica, le opportunità esistono ma restano spesso frammentate, disperse, talvolta ignorate.
Ritrovare una cultura marittima nazionale non è un esercizio nostalgico, ma una necessità strategica. L’Italia dispone di porti moderni, di una flotta rispettata, di competenze tecniche e industriali che potrebbero farne una potenza marittima di primo piano nel Mediterraneo allargato.Ma per tornare protagonista, occorre una politica del mare integrata: economica, diplomatica, energetica, ambientale e militare.
Nel XXI secolo il mare è diventato anche la dorsale digitale del mondo. Sotto la superficie degli oceani scorrono oltre 450 cavi in fibra ottica che trasportano il 98% delle comunicazioni globali: dati, immagini, transazioni finanziarie, informazioni sensibili. Chi ne controlla la posa, la manutenzione e la sicurezza controlla la conoscenza, la finanza e l’informazione.
A questa infrastruttura invisibile si affiancano i gasdotti e gli oleodotti sottomarini, le piattaforme energetiche offshore, i sistemi di monitoraggio ambientale e i cavi di alimentazione per l’eolico marino. È un mare industrializzato, tecnologico, interconnesso, in cui ogni fondo oceanico è potenzialmente un campo strategico. La geopolitica marittima del futuro sarà sempre più ibrida, fatta di ingegneria, dati e diplomazia, dove il confine tra sicurezza civile e militare diventa labile.
L’altro grande tema del presente è la transizione ecologica. Gli oceani assorbono un quarto dell’anidride carbonica prodotta dal pianeta e generano la metà dell’ossigeno che respiriamo. Ma sono anche le prime vittime del cambiamento climatico, dell’inquinamento e dello sfruttamento intensivo. La “blue economy” e la “transizione blu” non sono slogan, ma prospettive reali di sviluppo sostenibile che intrecciano scienza, industria e politica.
L’economia del mare — trasporti, pesca, turismo, energie rinnovabili, biotecnologie — può rappresentare un motore straordinario di crescita se guidata da una visione di lungo periodo. Qui si gioca una partita decisiva: conciliare potenza e sostenibilità, sicurezza e innovazione. Il futuro delle flotte, dei porti e dei mestieri del mare dipenderà dalla capacità di ridurre le emissioni, digitalizzare i processi e formare nuove competenze.
Guardare il mondo dal mare significa capire la sua logica profonda. Ogni rotta racconta una storia, ogni porto custodisce una scelta, ogni nave testimonia un legame fra popoli. Il mare non divide, unisce — ma unisce solo chi sa navigarlo.
Le civiltà che hanno dominato gli oceani sono sempre state quelle capaci di pensare oltre l’orizzonte, di collegare conoscenza e potenza, cultura e tecnologia.
Nel 2025, mentre le potenze si confrontano per il controllo delle rotte e delle risorse, il mare resta la chiave per leggere il destino della globalizzazione. Non c’è sfida economica, politica o ambientale che non abbia una dimensione marittima. Dall’Africa all’Indo-Pacifico, dall’Artico al Mediterraneo, tutto ciò che conta — energia, cibo, dati, merci — passa dal mare. E proprio lì, negli spazi fluidi e imprevedibili degli oceani, si decideranno gli equilibri del mondo che verrà.
Ritrovare la consapevolezza marittima significa dunque comprendere che il futuro non si costruisce sulla terraferma, ma sull’acqua. È nel mare che l’umanità continuerà a cercare la sua via: fra commercio e conoscenza, potenza e responsabilità, libertà e necessità.
Ed è dal mare, ancora una volta, che passa il futuro.
